«La nostra uscita da Confindustria non modifica i nostri impegni in Italia». Anzi: «Le nostre motivazioni sono logiche e coerenti con il percorso che abbiamo fatto e continuiamo a fare». Poi John Elkann quel «percorso» lo spiega: la Panda in partenza a Pomigliano, le Jeep promesse a Mirafiori, i nuovi motori Alfa garantiti a Pratola Serra. Ma è già un andare oltre. Lasciando confinato là, nelle due frasi calibrate ieri a Genova, qualsiasi riferimento a Viale dell'Astronomia. Volutamente. Freddamente. Sono passati due giorni, dallo schiaffo del divorzio Fiat. Che «fuori» (dal Lingotto) continua a bruciare. E, com'era prevedibile, su un fronte molto allargato. Imbarazza e divide l'associazione degli imprenditori, marca una volta di più le differenze tra i sindacati (Cisl e Uil sempre dialoganti e tutto sommato pro-azienda, Cgil sempre contro e quasi pro-Confindustria), regala alla politica un nuovo filone da cavalcare: persino la Lega, fino a ieri ferocemente anti-Fiat, davanti all'elogio dell'articolo 8 ora alza la bandiera dello «strappo di Torino» e inneggia al presunto federalismo di Sergio Marchionne. «Effetti collaterali», li chiamano nel gruppo: non graditi, ma messi in conto. Previsto anche che le polemiche non si fermassero al giorno dell'annuncio. All'esterno, però. Dentro, capitolo chiuso. Marchionne ha deciso, e «noi non facciamo entrate e uscite». Elkann ha condiviso, e le parole di ieri dimostrano quanto anche per lui la lunga storia di Fiat e Confindustria insieme sia, appunto, storia. Finita. Archiviata. Gli manca ancora un passo formale: dell'associazione è vicepresidente e, pur se si sciogliesse il gelo ormai calato dei rapporti con Emma Marcegaglia, è ovvio che lascerà. Senza rimpianti. Ma anche senza clamore. È, almeno, quello che il presidente del Lingotto spera. Perciò evita toni polemici. Perciò, esattamente come Marchionne lunedì, non dice mai: usciamo perché non ci sentiamo rappresentati. E sposta il focus su quella che, insiste, è la vera sostanza. Fiat-Chrysler ha già una dimensione multinazionale e «deve» crescere ancora di più nel mondo. Per questo Torino è stata «costretta» a lasciare Viale dell'Astronomia: perché servono la flessibilità e la certezza degli accordi firmati a maggioranza, cui l'articolo 8 dà forza normativa e che, invece, l'intesa Confindustria-sindacati del 21 settembre rischia di sterilizzare. Interverrà più tardi, sul tema, Maurizio Sacconi. Quel rischio non c'è, ripete il ministro del Welfare, con precisazioni che suonano più come avvertimento alle parti sociali che come richiamo al Lingotto: i patti interconfederali «non depotenziano l'articolo 8» perchè l'articolo 8 è legge, ed è dunque «la legge oggi a garantire la capacità degli accordi aziendali in tutti i settori e l'efficacia generalizzata a tutti i dipendenti degli accordi sottoscritti a maggioranza». Benissimo, incassa Confindustria: «Concordiamo con quanto affermato dal ministro, la sua dichiarazione sgombra il campo da possibili equivoci». Il problema è: concorderà anche la Cgil? E la Fiom? I dubbi (fondati) restano. E sono quelli che una Fiat-Chrysler «impegnata a crescere nel mondo - parole di Marchionne - non può permettersi in Italia». Leggere però tutto questo come preludio all' uscita anche dal Paese è, per il Lingotto, «totalmente sbagliato». Ed Elkann lo ribadisce: «Il nostro percorso è coerente. Abbiamo annunciato lunedì l'impegno per Mirafiori e Pratola Serra. A Grugliasco, chiusa da cinque anni, produrremo le nuove Maserati. A Pomigliano stiamo costruendo la Panda. Tutti questi sono investimenti nel Paese». Non convince, ovviamente, la Fiom. Ma Cisl, Uil, Fismic ci scommettono. L'uscita da Confindustria l'hanno già a loro volta archiviata: «Ora - chiede Luigi Angeletti - l'obiettivo dev'essere un solo contratto per tutti i dipendenti Fiat in Italia». Sa che il modello Marchionne già ce l'ha: Pomigliano-Mirafiori-Grugliasco.
(Fonte: www.corriere.it - 6/10/2011)
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