giovedì 31 marzo 2011

Marchionne: Fiat al 51% di Chrysler entro il 2011. La battaglia con i tedeschi può essere vinta


«Confermiamo tutti gli obiettivi per Fiat, che segnerà un forte crescita del business accompagnata da una robusta redditività». Il numero uno della Fiat Sergio Marchionne, parlando all'assemblea degli azionisti, ha ribadito che il target del fatturato 2014 per Fiat sarà di 64 miliardi, quasi il doppio del 2010, e «potrebbe arrivare a 100 miliardi con Chrysler». «Per il 2011 - ha detto Marchionne - ci aspettiamo un miglioramento generalizzato dei mercati, ad eccezione di quello delle autovetture in Europa la cui performance è influenzata dai cali previsti in Italia e in Francia». La crescita quindi sarà sostenuta soprattutto dai mercati emergenti come il Brasile. L'ad si dice fiducioso che l'azienda aumenterà la sua quota di mercato nel secondo semestre di quest'anno «grazie al lancio di nuovi modelli».
Fiat presto al 35% di Chrysler, obiettivo 51% entro l'anno - «Porteremo presto la quota in Chrysler al 35%» ha aggiunto Sergio Marchionne ricordando che, all'inizio dell'anno, la quota è salita al 25%. «Il nostro obiettivo rimane quello di arrivare al 51% di Chrysler entro l'anno» ha aggiunto durante la conferenza stampa dopo l'assemblea. «Fiat non sta americanizzando i propri prodotti - ha sottolineato l'ad. - oltre il 50% delle auto a marchio Chrysler avrà una architettura europea». Marchionne ha fatto sapere che Fiat ha «un insieme di "call option" per salire al 51% in Chrysler. Non abbiamo ancora deciso quale utilizzare». Per l'ad «la cosa più semplice è rilevare il 16% una volta che siamo saliti al 35% e dopo che abbiamo ripagato i debiti al Governo americano. Esiste poi il diritto, esercitabile da quest'anno, sempre una volta rimborsati i debiti al Governo U.S.A., di acquistare la quota dello Stato americano, mentre un altro diritto, esercitabile dal 2013 e in scadenza nel 2016, è quello di acquistare il 40% degli interessi del trust Veba nella Chrysler».
La produttività degli stabilimenti italiani - L'ad ha sottolineato ancora che il divario tra la produttività italiana e gli altri stabilimenti Fiat nel mondo sia «evidente». Marchionne ha sottolineato che l'utilizzo della rete italiana è al 54% e scende al 37% se si considera la capacità tecnica, in confronto a percentuali del 126 e del 78%, rispettivamente, negli altri paesi. In Italia, ha sottolineato, «sono stati fatti passi importanti per ottenere flessibilità e prospettive sicure» ha osservato riferendosi agli accordi sindacali di Pomigliano e Mirafiori. Marchionne ha ricordato che gli accordi per Pomigliano porteranno alla produzione delle Panda nel secondo o terzo trimestre di quest'anno a 250mila unità rispetto a meno di 20 mila del 2010. Quanto a Mirafiori il progetto per un suv a marchio Jeep e Alfa Romeo, porterà nel terzo o quarto trimestre del prossimo anno l'avvio della produzione che si attesterà su 280mila vetture l'anno. Infine Marchionne ha ricordato che entro l'anno cesserà la produzione a Termini Imerese.
Non c'è necessità di vendere Alfa Romeo - «Non c'è nessuna necessità di vendere Alfa Romeo. La cosa più importante è che quello che Volkswagen può fare con Alfa Romeo è capace di farlo Fiat con Chrysler. Nel medio-lungo termine la battaglia con i tedeschi può essere vinta» ha detto Marchionne. Alfa Romeo, ha aggiunto Marchionne, «è un marchio che ha un grandissimo potenziale, senza Chrysler sarebbe stato molto difficile garantire ad Alfa le architetture per andare avanti. La piattaforma prodotta a Mirafiori è molto importante per Alfa e nasce dall'architettura usata per la Giulietta. Penso che i tedeschi hanno fatto un bel casino per esprimere il loro interesse per Alfa e che anche i commenti degli azionisti in assemblea (che hanno chiesto a Fiat di cedere la casa del biscione a Volkswagen, ndr) sono stati ingenerosi».
2010 anno cruciale per lo spin-off con Fiat Industrial - La Fiat ha chiuso lo scorso anno con «risultati positivi decisamente sopra i nostri obiettivi», nonostante la crisi economica ha detto Marchionne. «Le prospettive sono progressivamente migliorate, segnando recuperi consistenti in vari mercati, anche se sotto livelli pre-crisi», ha detto Marchionne, spiegando che la performance dell'auto «è stata influenzata dal venir meno degli ecoincentivi» ma «Fiat è stata in grado di gestire la dinamica dei cicli economici e con prontezza», grazie anche a «severe misure di contenimento dei costi». L'ad della società torinese ha spiegato che il 2010 è stato «un anno cruciale per un altro motivo»: Fiat ha preso una «decisione storica», facendo riferimento allo spin-off di Fiat Industrial aprendo un «nuovo capitolo dell'azienda». Quella di oggi, ha detto Marchionne, è «l'ultima assemblea della Fiat per come l'abbiamo conosciuta finora», cioé come conglomerata.
L'ottimismo di Elkann: ho 35 anni e sono speranzoso per il nostro futuro - «Venerdì compio 35 anni e devo dire che sono molto speranzoso per quello che sarà il nostro futuro». Così John Elkann, presidente di Fiat, ha concluso il discorso di apertura dell'assemblea del Lingotto, che approverà oggi il bilancio 2010. «Negli anni la Fiat ha deciso di concentrarsi su meno mestieri ma sul mondo: con la decisione che avete preso l'anno scorso la Fiat torna a fare automobili, solamente automobili. Per fare automobili nel mondo di oggi è importante affrontare questo con grande focalizzazione: farlo su più mercati e con più prodotti. Per questo da sempre la Fiat ha guardato all'America come il mercato con cui fare accordi».
OK della UE al controllo congiunto Fiat-GM di VM Motori - In mattinata è arrivato anche il via libera della Commissione UE all'acquisizione del controllo congiunto di VM Motori
S.p.A. da parte di Fiat S.p.A. e di General Motors. Dall'esame dell'operazione, la Commissione ha concluso che «la concentrazione non sarebbe tale da ostacolare in maniera significativa la concorrenza effettiva nello Spazio Economico Europeo o in una sua parte sostanziale». Il costruttore italiano VM Motori progetta e fabbrica motori diesel per uso automobilistico, industriale, agricolo, stazionario e marino, ed è stata finora controllata congiuntamente da GM e da Penske Corporation, impresa con sede negli Stati Uniti.
(Fonte: www.ilsole24ore.com - 30/3/2011)

mercoledì 30 marzo 2011

Tedeschini: "Fiat, non devi fa' l'americana!"


Altro che Parmalat: qui rischiamo di perdere la Fiat, con tutto quel che un’azienda come quella torinese significa in termini di quote del mercato mondiale (circa il 3% nell’auto, molto di più nei trattori e nelle macchine movimento terra) e soprattutto di ricerca, settore nel quale vantiamo ben pochi campioni nazionali. Eppure continuano a fioccare indiscrezioni sull’idea di Sergio Marchionne di spostare il quartier generale in quel di Detroit, nella sede del partner americano Chrysler: è stata la Reuters a rilanciare autorevolmente queste voci, smentite (ma senza troppa convinzione) dal Lingotto. Diciamolo subito: per l’Italia sarebbe una sconfitta storica, francamente incomprensibile. La Fiat è un pezzo di questo Stato che ha appena spento le sue prime 150 candeline, è l’azienda che ne ha accompagnato il boom economico con le sue utilitarie - che si chiamassero Topolino, 500 o Uno - ricevendone in cambio un forte sostegno. Perché mai dovrebbe emigrare? Quando la Renault ha acquisito la giapponese Nissan, nessuno è stato sfiorato dall’idea che la Regie potesse traslocare da Parigi a Tokyo. E mai la General Motors, nonostante le tante marche comprate in giro per il mondo, ha pensato di lasciare Detroit. Perché in questa tentazione dovrebbe cadere la Fiat? Questo sarebbe anzi il momento per insediare a Torino un gruppo di comando forte, che sappia dare il meglio dell’italianità (sissignore, anche in termini di creatività e design) nell’ambizioso piano di Marchionne di entrare tra i primi cinque costruttori al mondo. Che cosa osta a uno sviluppo così naturale? Forse solo il disprezzo che il capo della Fiat ha maturato nei confronti di tutto quanto sa di sindacato e di politica italiana. L’uomo del “senza se e senza ma” detesta gli arzigogoli delle nostre trattative e adora il pragmatismo americano. Una faccenda molto seria, ma non abbastanza seria da farci scivolare via l’unico costruttore che ci è rimasto, con Alfa Romeo, Lancia, Ferrari e Maserati al seguito. Pensiamoci, prima che sia tardi. E diamo anche a Marchionne uno straccio di motivo per amare questo disgraziato Paese.
(Fonte: http://qn.quotidiano.net - 27/3/2011)

martedì 29 marzo 2011

La scalata di Fiat in Chrysler secondo Report


Da gennaio 2011 la Fiat SpA possiede il 25% di Chrysler, ma il suo obiettivo è arrivare al 51%. Per farlo dovrà procedere per tappe, ma se vuole scalare il Gruppo americano pagando poco gli conviene "andare male". "Peggio va Fiat... più è facile per lei salire" in Chrysler, ha detto domenica sera la giornalista Giovanna Boursier in un servizio andato in onda su Rai Tre nella trasmissione Report. Nell'inchiesta, in cui si è parlato del piano strategico Fabbrica Italia, si è cercato di spiegare come è possibile realizzarlo alla luce dell'Alleanza internazionale e dello scorporo in due gruppi della vecchia Fiat. Una ricostruzione "piena di imprecisioni", come ci ha detto una fonte vicina all'azienda torinese, che non ha commentato ufficialmente il servizio incentrato sull'interrogativo: "Come possiamo diventare grandi in Italia trasferendoci negli Stati Uniti?". Sono passati due anni da quando il Presidente Barack Obama ha annunciato in TV l'Alleanza tra Fiat e Chrysler. Oggi Marchionne dice che "il cuore della Fiat sarà sempre a Torino, ma che la sua testa deve essere in più posti". In futuro quindi sentiremo parlare sempre più spesso di Detroit, visto che l'obiettivo di Fiat è scalare Chrysler. Vediamo come.
L'ALLEANZA - Per capire quali sono le prossime mosse di Fiat, è bene ricordare i termini dell'Alleanza. Il 29 aprile 2009, in concomitanza con la richiesta di fallimento della Chrysler LLC per proteggersi dai creditori (come aveva fatto anche la General Motors), il Presidente Obama annunciava "il salvataggio" dell'azienda di Detroit. Fiat ne aveva preso il 20%, senza pagare un dollaro. "Fiat si è impegnata a costruire motori e nuove auto a basso consumo qui negli Stati Uniti", aveva spiegato Obama. Ma la Chrysler in cui era entrata la Fiat di Marchionne non era quella di prima, era un'altra società a cui la Casa Bianca aveva dato miliardi di dollari per ripartire. La nuova Chrysler ha come denominazione sociale quella di Chrysler Group LLC, ha meno dipendenti, meno stabilimenti e meno debiti. E da quest'anno, con l'aumento della quota di Fiat al 25%, l'azionariato del Gruppo Chrysler è così ripartito: il 63,5% appartiene alla UAW Veba (i sindacati americani); il 9,2% al Tesoro U.S.A. e il 2,3% al governo canadese. L'azionista di maggioranza è quindi il sindacato, ovvero i lavoratori, che ci hanno messo i propri fondi sanità. "Sperano di risanare, riportare in borsa Chrysler e rientrare - dice Boursier -. Per questo hanno firmato contratti durissimi, riduzione di stipendio e aumento dei turni". "Lì la classe operaia si considera classe media, quindi può anche mettere i soldi per far vivere una fabbrica. Quindi gli americani hanno fatto il loro dovere", ha spiegato Giulio Sapelli, Economista.
LA SCALATA - Fiat ha ottenuto il 20% di Chrysler impegnandosi a condividere con il Gruppo americano le proprie conoscenze tecniche e i brevetti in materia di "motori verdi" e ridotti consumi energetici. Per arrivare al 35% il Lingotto deve dare altra tecnologia a Chrysler e aprirgli il mercato brasiliano, dice Report. Per arrivare al 51%, deve restituire "tutto" ad Obama. "L'accordo prevede che prima che Fiat venga autorizzata a prendere una quota di maggioranza nella Chrysler i contribuenti devono essere rimborsati da Chrysler a seguito dei nuovi investimenti che dovranno essere realizzati", aveva detto il Presidente degli Stati Uniti nel suo discorso in TV. Ma nella scalata in Chrysler un ruolo decisivo lo gioca lo scorporo auto, avvenuto a gennaio. Oggi il Gruppo Fiat è costituito da Fiat S.p.A. e Fiat Industrial ed è proprio la prima società, quella legata all'auto, che ha ereditato l'alleanza con Chrysler. E non è un dettaglio da poco, perché tra le due aziende la Fiat S.p.A. è quella che va meno bene e questo, secondo Report, favorirebbe la scalata a Chryser perché, in base al contratto, è a lei che si è adattato il parametro su cui viene valutata la scalata della presenza Fiat nel titolo di Chrysler. In pratica "peggio va Fiat, più e facile per lei salire... Il meccanismo è complicato: ma per Fiat arrivare al 51% di Chrysler prima della quotazione (di Chrysler in Borsa, ndr) è molto vantaggioso perché il prezzo delle azioni si abbassa se si abbassano i margini di guadagno di Fiat auto", sostiene la giornalista di Rai Tre ed anche Alfonso Scarano, dell'Associazione Italiana Analisti Finanziari, dice: "Queste carte rivelano che quanto peggio va Fiat, tanto meglio può essere appetibile l'affare Chrysler".
DAL 35% AL 49% SENZA RIMBORSO ALLA CASA BIANCA - Per fondersi con Chrysler la Fiat dovrebbe quindi, come ricostruisce la trasmissione TV, costruire l'auto a basso consumo (che le consente di arrivare al 35% "senza pagare un dollaro"), rimborsare Obama (per raggiungere il 51%) e quotarsi a Wall Street. "Mi dica i tempi. Quando arrivate al 35?", chiede Boursier a Marhionne. "Non lo so! Spero più presto possibile - risponde l'ad -. Stiamo lavorando in una maniera dannata per arrivarci, dobbiamo omologare una macchina a 40 miglia/gallone, con l'architettura della Fiat, quindi la cosa è un traguardo tecnico che dobbiamo raggiungere". E la scalata al 51%? "Ho detto chiaramente che sarebbe consigliabile farlo prima" della quotazione in Borsa (ndr.), dice Marchionne. "Perché Lei paga meno?", chiede Boursier. "No perché contrattualmente mi scade l'opzione una volta che va in Borsa", risponde l'ad. "Se non riesce ad arrivare al 51 pagando tutto il prestito ad Obama può comunque arrivare al 49 rimborsando la metà. Steven Rattner i contratti li ha visti perché era il negoziatore alla Casa Bianca per l'industria dell'auto...", sostiene la giornalista che cede la parola a Rattner: "Il prezzo è basato su una formula complicata e dipende dal risultato di Chrysler, dal mercato dell'auto in generale, nonché dall'andamento specifico di Fiat. Fiat comunque può passare dal 35 al 49% anche senza aver ancora rimborsato i 7 miliardi di prestito ad Obama, e successivamente passare al 51%".
MARCHIONNE POTREBBE DIVENTARE IL SECONDO AZIONISTA FIAT - Insomma, se per investire in Italia, dice Marchionne, bisogna produrre auto ("Dove li prende i 20mld di investimenti da fare in Italia?" - "Vengono prodotti quando vendo vetture"), per scalare Chrysler pagando poco bisogna essere molto abili anche nella finanza. Inoltre, secondo gli analisti citati da Report, una volta quotato a Wall Street, il Gruppo potrebbe valere 20 miliardi di dollari sul mercato, e la parte Fiat ne vale circa 10. "Io ho un dubbio che non siamo di fronte a un manager, l'ambizione di Marchionne a me sembra che sia quella di un imprenditore", ha detto Giuseppe Berta, dell'Università Bocconi. In effetti, dice Report, nel 2014 quando le sue azioni e stock options scadono, e Fiat potrebbe avere il 51% di Chrysler, Sergio Marchionne potrebbe diventare il secondo azionista Fiat dopo il presidente John Elkann. Che ruolo avrà poi la famiglia Agnelli alla luce dell'Allenaza Fiat-Chrysler è da vedere. Tre settimane fa John Elkann aveva confermato al Financial Times che la Exor S.p.A. - la holding finanziaria (ex IFI) della famiglia Agnelli - potrebbe diluire la propria quota azionaria in Fiat al di sotto dell'attuale 30%. "Scelta impensabile per i vecchi Agnelli", aveva commentato il quotidiano.
QUANTA FIAT RIMARRA' A TORINO? - La fusione tra Fiat e Chrysler è quindi sempre più vicina. "La scelta sulla sede legale non è stata ancora presa", ha detto più volte Marchionne, precisando però che se "il cuore sarà in Italia, la testa in più parti: in Italia per le attività europee, a Detroit per quelle americane. Ma dovremo pensare in futuro anche al Brasile e all'Asia". Secondo lui la scelta del quartier generale non è un problema italiano. "No, perché la Chrysler è una società americana, fino adesso è indebitata con il Tesoro". "Ma se il 51% di quella società americana appartiene ad una società italiana, vuol dire che la Chrysler diventa per la maggioranza italiana?", ha chiesto Report al manager. "No, la proprietà può darsi che diventi italiana, l'azienda rimarrà sempre americana. Ma questa è una cosa importante, se no ci andiamo a confondere". La sede legale è quindi importante perché "una volta che la Chrysler va a finire in Borsa, e dovrà andare perché dovrà risanare il debito che ha con VEBA, che è il trust della UAW, quel problema andrà risolto - ha spiegato Marchionne -. Avremo un'azienda quotata nei mercati americani e una quotata in Italia" (Fiat S.p.A. è quotata a Milano, ndr).
(Fonte: www.omniauto.it - 28/3/2011)

lunedì 28 marzo 2011

Andrea Formica: per Fiat Freemont obiettivi ambiziosi (40.000 unità l’anno)


L'obiettivo di Fiat è di vendere 40.000 unità della Freemont ogni anno, nello specifico 20.000 in Italia e 20.000 nel resto d'Europa. Ad annunciare questo ambizioso target è stato Andrea Formica, capo vendite e marketing del Lingotto, che si dice molto ottimista per il futuro del nuovo crossover sette posti marchiato Fiat e realizzato sulla base dell'americanissimo Dodge Journey. La produzione della Freemont partirà questa estate nello stabilimento messicano Chrysler di Toluca, dove viene prodotta anche la Fiat 500 destinata al mercato americano. L'obiettivo delle 40.000 unità non sembra in realtà neanche così irraggiungibile, visto che la Croma, uscita di scena senza troppi rimpianti qualche mese fa, nonostante non fosse stato un modello troppo apprezzato ed elogiato in tutto l'arco della sua produzione, vendeva circa 65.000 unità ogni anno. Inoltre per Formica, l'utilizzo di una piattaforma americana per il nuovo modello Fiat non sarà né nascosta, né verrà sottolineata in una eventuale strategia di marketing. La Freemont potrebbe comunque avere le carte giuste per conquistare una fetta importante della clientela. Tra le caratteristiche che in questo momento sembrano interessare di più il pubblico ci sono l'impostazione alta, da crossover, e l'abbondante spazio offerto dalle importanti misure (4,89 metri di lunghezza, 1,88 m di larghezza e 1,72 m di altezza). Da non sottovalutarre anche la modularità dei 7 posti, con la terza fila di sedili che in caso di necessità scompare a filo sul pavimento, creando così un vano regolare che nelle sua capienza massima può raggiungere i 1.461 litri di ampiezza. Inoltre la seconda fila di seduta può contare anche sul dispositivo "child booster" dotato di un sistema di rialzo dei sedili che permette una seduta comoda e corretta per i più piccoli e nello stesso tempo ottimizza la posizione delle cintura di sicurezza garantendo la massima sicurezza e comodità. Una iniezione di "italianità" arriverà invece dalla gamma dei propulsori turbodiesel, tutti rigorosamente "made in Fiat". La gamma dei propulsori sarà infatti sviluppata dal comparto Fiat PowerTrain (FPT) che metterà a punto per il multi spazio italo-americano i propulsori 2.0 litri turbodiesel della famiglia Multijet, disponibili nelle declinazioni da 140 e 170 CV. La gamma a benzina invece adotterà il motore V6 di origine Chrysler appartenente alla famiglia Pentastar da 3.6 litri e 276 CV, abbinato al cambio automatico del costruttore americano.
(Fonte: www.motori.it - 15/3/2011)

domenica 27 marzo 2011

Trasformiamo in simboli i nostri successi all'estero (come Fiat-Chrysler)


Le guide turistiche dei tour operator egiziani dicono con le indispensabili lusinghe del loro mestiere: «Italiani multo furbi e intelligggenti, spostarono il tempio trecento metri indietro e sessanta più in alto». L'operazione Abu Simbel, a nord della diga di Assuan, fu realizzata a metà degli anni Sessanta da un consorzio internazionale di imprese coordinate dagli svedesi in cui Impregilo aveva una delle quote principali. In Italia l'impresa ebbe una risonanza quasi sportiva, per una forma di orgoglio anche vagamente postcoloniale. E qualcuno tra i baby-boomers ricorda nei sussidiari di 40 anni fa la citazione dei marmisti di Carrara, portati in Nubia da Impregilo e addetti al taglio dei blocchi di arenaria. Di solito le imprese di un paese sono sempre esportatori di cultura. In un libro affascinante, «L'impero irresistibile», la storica americana Victoria De Grazia (cattedra di Storia Europea a Columbia) racconta come nel Novecento l'espansione degli Stati Uniti sul mercato europeo si svolse innanzitutto sul piano culturale e della costruzione di un immaginario vincente. La tesi della De Grazia è che gli Stati Uniti sfidarono la borghesia commerciale europea e la spodestarono, a colpi di Coca-Cola ma anche di Rotary. Nel frattempo è passato un secolo, la globalizzazione e la dimensione internazionale dell'economia sono cresciute, ma radici e origini restano fattori di grande suggestione per le imprese e per le comunità in cui vivono, come vediamo in questi giorni nel dibattito su Fiat-Chrysler. L'Italia quanto è consapevole del potenziale culturale dei suoi successi imprenditoriali? La storia del rapporto tra l'Italia e le sue imprese come simboli di italianità è complicata e fatta di alti e bassi. Dice Elserino Piol, uno dei protagonisti della storia dell'industria tecnologica italiana, che «non c'è mai stata un'attenzione strategica per l'azione delle nostre imprese all'estero». L'attenzione dell'opinione pubblica e delle stesse classi dirigenti dipendeva dalle variabili in gioco. C'era molta enfasi sulla virata pro-paesi produttori dell'Eni di Enrico Mattei, o sul grande insediamento Fiat a Togliattigrad (con tutte le doverose cautele per l'alleato americano), ce ne fu meno sull'acquisizione dell'americana Underwood da parte di Olivetti nel 1959, che per la verità segnò l'inizio della fine del primo tempo per il gruppo di Ivrea, che avrebbe successivamente avuto una nuova vita con Carlo De Benedetti.
Il design industriale - Per tutti gli anni '70 - mentre comincia ad affermarsi come testimonial di italianità il design industriale di ispirazione borghese sospeso tra Joe Colombo e Achille Castiglioni - la spinta simbolica delle operazioni italiane avvenne sulle grandi opere. La diga di Tarbela, ancora Impregilo capofila, per esempio. Giandomenico Ghella, presidente di Ghella spa, tra i leader nelle costruzioni in Sudamerica, vicepresidente Ance, l'associazione dei costruttori, dice: «Ancora negli anni '70 c'era un'idea dei costruttori legata ai grandi successi, alla Ricostruzione e alle grandi realizzazioni internazionali. Noi costruttori eravamo un simbolo di modernizzazione. Oggi l'immagine delle grandi imprese di costruzione è appannata. Eppure all'estero con 44 miliardi di commesse siamo molto più forti di quanto non fossimo allora». Poi arrivarono gli anni '80. E si affermò una specie di epica mediatica della proiezione internazionale. Furono le gesta dei capitani coraggiosi o quattro moschettieri o altre romanzesche definizioni. Le operazioni della Ferruzzi guidata da Raul Gardini in Francia, con l'acquisizione di Beghin-Say, e in America (culminate lateralmente con l'avventura del Moro in Vuitton e America's Cup) ; tutto il tradizionale internazionalismo agnelliano, dai successi personali dell'avvocato, alle perenni trattative di alleanza globale della Fiat, era il turno della Ford in quegli anni, fino al lancio della Uno di Ghidella a Cape Canaveral, e - con un tocco di minimalismo - l'acquisto di Perrier e Evian in Francia, allora terra di conquista per gli italiani. Anche il Cav (che ancora non era Cav) aveva un attivismo internazionale che piaceva ai media. Cominciò da La Cinq a Parigi, con un contorno di dispetti e incomprensioni con Lagardère che non gli era simpatico, come ricordano ogni tanto i dirigenti milanesi dell'epoca. Certo, la pagina più entusiasmante di quella stagione fu anche quella che finì peggio: cioè il tentativo da parte di Carlo De Benedetti che aveva già acquisito un gioiello francese, Valeo, di comprare la Sgb dei Lippens (gli Agnelli belgi). Carlo De Benedetti fu sconfitto, con il contributo decisivo del suo antagonista italiano, Gianni Agnelli, e l'avventura fu seguita dai media con una attenzione quasi calcistica. «Anche se - osserva Piol - così come accade oggi, del resto, l'attenzione era più concentrata sui personaggi che non sui fondamentali o sulle esperienze industriali delle imprese». Negli anni Novanta la spinta si esaurisce. Colpa di Tangentopoli, della crisi, dell'implosione delle classi dirigenti. Dice Patrizio Bianchi, economista industriale. «Il paese che era rappresentato dai campioni, dai raider, dalle grandi opere, vede all'improvviso venir meno la psicologia dell'orgoglio nazionale». In un libro del 2002, La rincorsa frenata, Bianchi si sofferma su quella fase: «Tutto dipese - dice - dalla coincidenza tra l'inizio della globalizzazione, i Pil dei paesi emergenti in crescita tumultuosa, e il cambiamento repentino del sistema politico e delle classi dirigenti nazionali». Simbolicamente il culmine di questa inversione di rotta è la cessione differita di Fiat a General Motors, intesa siglata nel 2000, saltata nel 2005. Poi sono arrivati gli anni Zero. Le grandi imprese italiane rimaste - nel frattempo ridottesi per quantità - sono molto attive nel campo delle operazioni estere, e sono attive - ovviamente con volumi diversi - anche le piccole imprese. Secondo la banca dati Reprint sul totale delle partecipazioni italiane all'estero al primo gennaio 2009, il 29,7% delle operazioni di investimento è fatta da imprese sotto i 50 dipendenti, con un fatturato di quasi 18 miliardi di euro, il 3,8% del totale generato dagli italiani all'estero. Sergio Mariotti, professore di economia industriale al Politecnico di Milano, responsabile del gruppo di lavoro che coordina la banca dati Reprint e pubblica il rapporto «Italia multinazionale». Dice che in Italia si sottovaluta la proiezione internazionale delle imprese: «Se ne parla poco, perché sembra implicare che le cose da noi non vanno bene. In realtà la maggior parte degli investimenti all'estero non sono delocalizzazioni, ma occasioni. Alle imprese italiane portano quote di mercato e Pil. Naturalmente i volumi vengono dalla grande impresa»: 400 imprese investitrici con più di 1.000 dipendenti generano fatturato all'estero per 350 miliardi di euro.
Poche big ma buone - Il numero delle nostre big è calato, ma tutte hanno una dimensione internazionale. L'elenco è noto. Fiat con Chrysler, l'Eni globalizzata, Finmeccanica con Drs, Enel con Endesa, Unicredit con Hvb, ancora nel campo finanziario l'espansione di Intesa Sanpaolo e Generali in Europa orientale. Eppure nessuna di queste operazioni - forse con la sola eccezione della gara vinta da Finmeccanica per l'elicottero U.S.A. nel 2005 - è stata utilizzata come manifesto di orgoglio industriale. Dice Mariotti: «Non sfruttiamo queste operazioni come fanno francesi e tedeschi. Da una parte i governi degli ultimi 15 anni hanno abbandonato l'idea delle politiche industriali. Dall'altra abbiamo maturato una forma di ostilità culturale nei confronti della grande impresa. Abbiamo molte piccole imprese che hanno grandi capacità di entrare nei mercati esteri e di fare acquisizioni, ma il loro effetto di trascinamento è ovviamente inferiore». Per carattere nazionale più che per attitudini liberali, siamo poco propensi a una visione di nazionalismo economico che in Europa rientra in scena con la crisi dell'"idraulico polacco"; solitari, ma molto attivi nella intraprendente tradizione "Mercante di Prato" (Francesco Datini, trecentesco padre del capitalismo italiano). Così la Luxottica dei Del Vecchio ha quasi due terzi dei suoi dipendenti - tra stabilimenti e retail - in Nord America dove genera il 60% del suo fatturato. Prysmian (cavi), 2,7 miliardi di capitalizzazione - cronaca di questi giorni - sta perfezionando l'acquisto dell'olandese Draka. Mapei della famiglia Squinzi ha 56 stabilimenti in 26 paesi diversi. Lo stesso vale per Brembo dei Bombassei, che ha fatto acquisizioni in tutto il mondo. Massimo D'Aiuto, amministratore delegato della Simest, finanziaria pubblica di sostegno alle imprese che investono all'estero dice: «Durante la crisi cominciata nel 2008 il ritmo del nostro impegno di assistenza agli investimenti esteri delle nostre imprese è cresciuto, segno di vitalità del sistema». In totale sono quasi 6.500 le italiane che hanno fatto investimenti e acquisizioni all'estero per oltre 450 miliardi di fatturato nel 2008. Si va dalle grandi acquisizioni fino a investimenti più contenuti per dimensioni, ma molto qualificati per i settori di appartenenza. Datalogic, azienda quotata al segmento Star che produce lettori di codici a barre, per scanner ecc., 350 milioni di capitalizzazione, la scorsa estate ha comprato la californiana Evolution Robotics Retail. La piacentina Bolzoni leader nei carrelli elevatori si espande all'estero in Finlandia, Stati Uniti, Germania, da dieci anni, con graduali acquisizioni dei concorrenti.
I simboli identitari - Ma così come non nasce una produzione simbolica su una delle più grandi operazioni cross border degli anni Zero, Enel che conquista Endesa, né su Fiat-Chrysler (che anzi genera discussioni e dubbi su una sospettata implicita americanità della futura integrazione), né sul raddoppio del Canale di Panama di Impregilo, così neppure nasce su operazioni nella moda o nel lusso: l'acquisizione di Ray-Ban e Brooks Brothers da parte della famiglia Del Vecchio, per esempio, o di Church da parte di Prada. Eppure, se ha ancora un senso la logica espansiva descritta da Victoria De Grazia, «a integrare il presidio delle grandi imprese rimaste, dovrebbero essere le forme di eccellenza, e cioè meccanica, moda e lusso, la nostra Hollywood, il nostro veicolo di rappresentazione di un modello culturale - dice Vanni Codeluppi, sociologo dei consumi -. La creatività di alto livello, da Armani a Prada alla Ferrari, è oggi il vero segno distintivo dell'identità italiana». Un caso sovente citato è quello del gruppo Tod's guidato da Diego Della Valle. È diventato il primo azionista dei grandi magazzini di lusso newyorkesi Saks, distributore dei prodotti italiani di alta gamma negli Stati Uniti. Dopo aver acquistato e rilanciato uno storico marchio francese, Roger Vivier, sta facendo la stessa operazione con una icona del confronto culturale tra Francia e Italia, la maison Schiaparelli. Mitica, perché Elsa Schiaparelli, romana di nascita e munita di prestigio sociale e parentele, negli anni 30 fu la grande rivale di Coco Chanel con il suo atelier di Place Vendôme; e lei, Coco, fatta da sé - inventrice di un gusto semplice, lineare, rigoroso - liquidava l'aristocratica avversaria, più immaginifica, colorata (inventò il rosa shocking), con uno sprezzante «l'italienne».
(Fonte: www.ilsole24ore.com - 17/2/2011)

sabato 26 marzo 2011

Fiat, 3 manovre per sopravvivere a Volkswagen e General Motors


Ci sono tre cose che tutte le case automobilistiche del mondo stanno facendo o stanno cercando di fare in questo momento. La prima è cercare di fare veicoli il più possibile uguali, ma che non sembrino tali agli occhi dei clienti. La seconda è essere presenti nei mercati che crescono. La terza è ottenere soldi pubblici, finanziamenti, aiuti, sovvenzioni. Da Fiat a Volkswagen, da BMW a Peugeot, da GM a Mercedes, l’agenda dei numeri uno delle aziende del settore porta scritta più o meno la stessa lista di obiettivi. C’è chi è più avanti, chi meno. Ma il programma è sempre lo stesso. Cominciano dal primo punto. Le vere economie di scala si fanno mettendo in comune più componenti possibili. Anzi, l’ideale sarebbe costruire un solo modello come la famosa Ford T del 1908, ma purtroppo non funziona dal punto di vista del marketing. I clienti hanno la propria personalità o, per dirla come gli esperti, ogni brand e ogni singola auto ha un portato emotivo che condiziona la vendita. Allora, la soluzione è una sola: un vestito diverso e il maggior numero di componenti (meccanici, elettrici o strutturali) assolutamente identici. Non svelo nessun mistero se scrivo che una Panda e una 500 Fiat non sono così differenti come appaiono. O che tutte le vetture medie del gruppo Volkswagen (Seat, Skoda e persino Audi) sono cloni più o meno riusciti della Golf, l’ultimo o penultimo modello. Un’altra strategia è quella di Lancia-Chrysler, con un modello identico in ognuna delle due sponde dell’Oceano, ma che col marchio americano si chiama 200C, mentre con quello italiano si chiamerà Flavia. Anche qui la logica è la stessa ed è obbligatorio seguirla, perché la metà delle vendite mondiali avvengono su mercati maturi dove la competizione è al coltello, i margini di guadagno risicati e le occasioni di vendita limitate. In altre parole, non è facile vendere un’auto nuova a chi non ne ha bisogno e i potenziali clienti sono proporzionalmente così rari e informati che la battaglia che si scatena tra le varie marche incide in maniera negativa sul prezzo di vendita e quindi sui margini. I costruttori automobilistici che in queste settimane sciorinano dati di bilancio con fatturato e guadagni in crescita non stanno facendo i “numeri” sui mercati tradizionali. I veri affari si fanno solo sui mercati emergenti: lo sa bene Fiat, i cui risultati sono stati sostenuti dal mercato brasiliano, così come lo sa Volkswagen, che ha tre joint venture in Cina, e come lo sa General Motors, la cui rinascita è in larga parte dovuta al flusso di denaro fresco che arriva dalle vendite cinesi. Il futuro delle aziende automobilistiche si gioca sui mercati emergenti. O meglio: chi lì non c’è, non ha futuro. Sudamerica, ma soprattutto Cina, Russia e anche il Maghreb, il Sudafrica, l’estremo oriente, Vietnam e Cambogia. Su questi mercati è la domanda che traina l’offerta, ovvero si fa fatica a costruire abbastanza auto quante i clienti ne richiedono. Inoltre, e non è una questione da poco, la scarsa cultura automobilistica rende il compratore non particolarmente attento alla qualità, alle finiture, all’innovazione tecnologica. Le auto non sono, nella maggior parte dei casi, quelle a cui siamo abituati in Europa, mentre i prezzi sono più o meno gli stessi. E per questo i margini sono maggiori. Nei mercati maturi, invece, ci sarebbe bisogno di un vero salto tecnologico per convincere un po’ tutti a cambiare auto. L’auto elettrica è l’ipotesi che in questo momento va per la maggiore e sono già in campo strategie raffinatissime per dimostrare a tutti che siamo a un passo dal traguardo di un’auto che non ha bisogno di bruciare combustibili fossili. Purtroppo non è ancora vero. O meglio, l’auto elettrica va bene solo in città se si fanno poche decine di chilometri al giorno. Nei percorsi misti e in autostrada non ha autonomia sufficiente. Ma resta un ottimo modo per ottenere finanziamenti pubblici che più o meno tutti i Paesi stanno elargendo ai costruttori che hanno stabilimenti sul proprio territorio. Le stesse fabbriche che, tra l’altro, sono state in larga parte finanziate da soldi pubblici, statali o regionali, oppure attirate con la promessa di incentivi fiscali o produttivi. Tutti i costruttori del mondo hanno scelto di localizzare un nuovo stabilimento o hanno deciso di ingrandire il proprio sito produttivo solo dopo aver valutato con attenzione i vantaggi economi offerti dalle amministrazioni pubbliche. Volkswagen in Russia, Renault-Nissan in Sudafrica, BMW in South Carolina. E non solo Fiat in Serbia.
(Fonte: www.ilsussidiario.net - 17/2/2011)

venerdì 25 marzo 2011

Fiat riceverà dalla BEI un finanziamento di 250 milioni di Euro per la ricerca


I 250 milioni che la Fiat riceverà dalla BEI, la Banca Europea per gli Investimenti, nel quadro del programma ECTF (European Clean Transport Facility), che prevede prestiti rivolti ai produttori europei per investimenti finalizzati alla riduzione della CO2. Questo finanziamento fa seguito a quello del 2009, pari a 400 milioni di euro, erogato sempre con lo stesso obiettivo. Ricordiamo che l'Unione Europea ha imposto ai costruttori di auto di ridurre la quantità emessa media della gamma modelli a 130 g/km per il 2015. La Fiat si è posta obietti ancora più ambiziosi: raggiungere i 122/123 g/km nel 2015 e i 95 g/km nel 2020. Negli ultimi quattro anni la Fiat è stato il costruttore con il livello più basso di emissioni di CO2 delle vetture vendute in Europa. Nel 2010, il valore medio è stato di 123,1 g/km, (il 4,7 g/km in meno rispetto alla media del 2009). Un risultato reso possibile grazie all'introduzione del motore bicilindrico TwinAir e in generale della tecnologia MultiAir. Si tratta di un sistema di regolazione delle valvole: a seconda di quanto si preme sul "gas”, le valvole di aspirazione, non più la farfalla, decidono quanta aria serve ai cilindri aprendosi e chiudendosi per un tempo variabile, e una gamma articolata di modelli alimentati a metano e GPL. Come precisa una nota diffusa dal gruppo torinese, il prestito permetterà ai centri di ricerca e sviluppo dislocati in Italia di portare avanti le proprie attività. Nel dettaglio, grazie a questo prestito la Fiat porterà avanti la ricerca nei motori a gas, ibridi e nei prodotti a risparmio energetico e basati su nuovi materiali. Una notizia che sembra gettare acqua sul fuoco sulle voci che vorrebbero la Fiat "disinteressata" all'Italia e sempre più dipendente dalla Chrysler, e quindi dagli U.S.A., con la quale potrebbe fondersi per creare un'unica società.
(Fonte: www.alvolante.it - 14/3/2011)

giovedì 24 marzo 2011

Marchionne: Fiat è sulla buona strada per il lancio Alfa Romeo negli U.S.A. nel 2012


A partire dal prossimo giugno, Fiat inizierà a vendere auto a marchio Alfa Romeo in Messico e resta sulla buona strada per portare al debutto il biscione di Arese negli Stati Uniti nel 2012. Lo ha confermato durante una visita a Città del Messico l'a.d. di Fiat e Chrysler, Sergio Marchionne, confermando il piano del Lingotto. Il manager si trovava in Messico per festeggiare l'avvio della produzione della Fiat 500 nello stabilimento Chrysler di Toluca. Marchionne ha discusso di Alfa Romeo e di altri argomenti durante una tavola rotonda con i giornalisti, prima di recarsi in visita allo stabilimento assieme al presidente del Paese, Felipe Calderon. Chrysler prosegue a lavorare per assicurarsi nuovi finanziamenti attraverso cui rifinanziare il prestito particolarmente oneroso di oltre 7 miliardi di dollari che ha contratto con il governo statunitense e con quello canadese per salvarsi dal rischio di bancarotta del 2009. "E' importante perché garantirà a Chrysler stabilità permanente per andare avanti", ha detto Marchionne. "Sono ottimista per quello a cui sto assistendo", ha detto ancora il manager, spiegando che sta trattando con un numero imprecisato di istituti di credito, comunque meno di dieci. Marchionne ha anche sottolineato che sarebbe "totalmente stupido" se i produttori di autovetture tornassero a fronteggiarsi a colpi d'incentivo per cercare di vendere i loro veicoli negli Stati Uniti, spiegando che Chrysler non proporrà alcun incentivo. Per quanto riguarda la Fiat 500, lo stabilimento messicano di Toluca, dove sono impiegati 2.714 operai, ha già iniziato a consegnare veicoli per il mercato statunitense. Secondo il programma, l'impianto produrrà circa 120.000 veicoli all'anno, 50.000 dei quali serviranno il mercato canadese e quello statunitense. Lo stabilimento di Toluca produce anche le Dodge Journey, che vengono poi spedite negli Stati Uniti e presto inizierà anche a consegnare le Fiat Freemont destinate al mercato europeo. Si tratta di Journey commercializzate a marchio Fiat. Marchionne fa affidamento su questi modelli per rilanciare il portafoglio Chrysler e conta di vendere oltre 2 milioni di veicoli nel mondo nel corso del 2011, con una crescita del 32% rispetto a 1,52 milioni di macchine consegnate lo scorso anno.
(Fonte: www.borsaitaliana.it - 7/3/2011)

mercoledì 23 marzo 2011

Autocar: l'Alfa Romeo "Made in Volkswagen" potrebbe avere un motore Porsche


Continua il "tormentone" Volkswagen-Alfa: le ultime voci le riporta il sito inglese Autocar, secondo cui il gruppo Volkswagen avrebbe già pronto un piano per equipaggiare le vetture del Biscione con il nuovo motore boxer a 4 cilindri che la Porsche sta sviluppando e che verrà utilizzato per le nuove Boxster e Cayman, nonché per l’inedita spider che deriverà dalla concept car Volkswagen BlueSport. Nei mesi scorsi erano emerse indiscrezioni sull'interessamento dei tedeschi nella ex fabbrica di Arese, nell'ambito di un'ipotetica acquisizione della marca italiana. Il gruppo Volkswagen potrebbe puntare sui motori boxer per riallacciarsi con una parte della tradizione motoristica Alfa, inaugurata prima con l’Alfasud e proseguita fino alla 33. Questo permetterebbe di differenziare le Alfa Romeo dalle altre auto del gruppo (Skoda, Seat, Audi e Volkswagen), con le quali, però, condividerebbero numerose altre componenti. Inoltre, alcuni modelli della casa del Biscione potrebbero essere prodotti anche nell’impianto Seat di Martorell, in Spagna. La "gola profonda" che ha informato Autocar avrebbe confermato che, dalle parti di Wolfsburg, l'Alfa è vista come un elemento chiave della strategia per arrivare ad essere il primo costruttore al mondo nel 2018. Come sappiamo, da parte della Fiat, c'è un netto rifiuto al "corteggiamento" tedesco: "fino a che io sarò amministratore delegato di Fiat e Chrysler la Volkswagen non avrà l'Alfa Romeo" ha dichiarato Sergio Marchionne lo scorso febbraio. Ma poi all'inizio di marzo, al Salone di Ginevra, Ferdinand Piëch, gran capo della casa tedesca, è tornato all'attacco dichiarando che, con Volkswagen, l'Alfa Romeo potrebbe arrivare a vendere 400 mila auto in cinque anni, cioè quadruplicarle.
(Fonte: www.autocar.co.uk - 15/3/2011)

martedì 22 marzo 2011

John Elkann al FT: la crescita all'estero non comporterà il ridimensionamento di Fiat in Italia


Senza sentimentalismi, ma con prudenza, l'erede della famiglia Agnelli che «ha salvato i gioielli di famiglia» guarda a una Fiat più grande e globale. «Andare all'estero non significa che quello che c'è in Italia si riduce», dice al Financial Times il presidente di Fiat John Elkann, rispondendo ai timori sull'ipotesi di un trasferimento della sede Fiat e della quotazione negli Stati Uniti. Per il bond strutturato di Fiat Industrial domanda vicina alla soglia dei 6 miliardi di euro In una strategia di crescita, per fare della società «un business più grande», Elkann è anche pronto a diluire ulteriormente la quota del 30% detenuta in Fiat da Exor, la società d'investimento controllata dalla famiglia Agnelli di cui egli è da poco presidente e Ceo. Nell'intervista-profilo pubblicata oggi dal FT, non mancano gli elogi all'ad Fiat Sergio Marchionne: «Non avremmo potuto avere partner migliore», afferma l'erede della dinastia automobilistica, esprimendo il suo apprezzamento per il manager che ha costruito l'alleanza con l'americana Chrysler, di cui Fiat ha il 20%. «Elkann crede che l'accordo con Chrysler, con cui Marchionne ha suggerito di arrivare a una piena fusione entro due o tre anni, aprirà opportunità per Exor», scrive il Financial Times, ricordando che Exor è «una delle più grandi società d'investimento europee», con un valore netto di attivi di 9 miliardi di euro e obiettivi di espansione in U.S.A. e in Asia. Exor, dichiara Elkann al FT, «ha a disposizione oltre un miliardo di euro per nuovi investimenti», ma capitale aggiuntivo potrebbe venire dal leverage di non più del 20% e introiti da disinvestimenti. Exor potrebbe considerare la vendita di Alpitour «se si presentasse una buona situazione», aggiunge. «Dobbiamo riorganizzarci per il futuro», dice Elkann, che da quando si è insediato a presidente e Ceo di Exor sta ristrutturando la governance della società d'investimento. «Fiat – afferma - è un grande esempio di come una società italiana possa globalizzarsi e accettare la sfida con il mondo. Exor appoggia questo e vuole che accada. L'orgoglio per le proprie radici non dovrebbe essere un freno per la crescita». Nel fare il ritratto di Elkann, a 34 anni «figura sempre più importante del business globale», il Financial Times parte dalla sua esperienza «in incognito» nella linea di assemblaggio in una fabbrica a Birmingham, esperienza «che descrive come una delle più grandi lezioni della sua vita». Il suo destino gli è piombato addosso a soli 28 anni dopo la morte del nonno, Gianni Agnelli, che lo aveva nominato suo erede, e del prozio, Umberto. Elkann ha chiamato Marchionne a capo della Fiat e «gli ha dato la benedizione» per diluire la quota della famiglia Agnelli in modo da spianare la strada al takeover del 20% di Chrysler nel 2009 e successivamente scorporare il gruppo. Accordi «impensabili» per le generazioni precedenti – osserva il FT - e anche per altre famiglie di produttori automobilistici europei, come i Peugeot e i Quandt (Bmw). La famiglia Agnelli ha raccolto i frutti di queste scelte con un aumento delle quotazioni, fa notare il quotidiano britannico. Ora Elkann ha preso pieno controllo di Exor con l'intenzione di farne una sorta «di Berkshire Hathaway» per l'industria dei beni capitali. Obiettivi ambiziosi: l'americana Berkshire Hathaway, guidata da Warren Buffett, è una delle holding più grandi del mondo. Il Ft dice che Elkann è «studiatamente apolitico», ma precisa che ha sostenuto il lancio del nuovo libro di Bill Emmott, ex direttore della rivista britannica The Economist, del cui board Elkann fa parte, su come rivitalizzare l'Italia dopo Silvio Berlusconi. Dei rapporti di Elkann con Marchionne, il Financial Times scrive che «l'approccio calmo, prudente di Elkann insieme alla sua mancanza di sentimentalismo sull'industria automobilistica hanno reso lui e Marchionne l'uno la perfetta spalla dell'altro nel rivoltare la Fiat e nell'audace ricerca di un legame con Chrysler per creare un produttore globale da 6 milioni di veicoli all'anno». I due uomini comunicano tra loro più volte al giorno. «Non avremmo potuto avere un partner migliore«, dice Elkann di Marchionne. «Abbiamo fatto molto negli ultimi 10 anni. Un chiaro allineamento dei nostri obiettivi, sostegno reciproco e rispetto per i rispettivi ruoli: è questa l'essenza di una buona relazione. E possiede un enorme talento». Inevitabile un paragone con il carismatico nonno: mentre Gianni Agnelli divenne famoso negli Stati Uniti per la sua celebre amicizia con John Fitzgerald Kennedy, Henry Kissinger e Jacqueline Kennedy Onassis, tutti suoi ospiti nella Riviera Italiana, Elkann appare «più discreto» e sembra essere più attratto dall'energia imprenditoriale del Paese. Nominando le famiglie Pritzker, Ridley e Walton, dice: «Ci sono molte affinità e abbiamo molto da imparare da queste famiglie, simili a noi, che sono basate nel Midwest e hanno radici nell'industria e nella finanza. Sono molto interessato a capire come un gruppo familiare si può sviluppare e può lavorare in modo diverso nel corso del tempo».
(Fonte: www.ft.com - 6/3/2011)

lunedì 21 marzo 2011

Chrysler, con Fiat vale 5 volte di più


Comincia a funzionare la cura Marchionne per il gruppo Chrysler. I primi a rendersene conto sono stati i dipendenti dell'azienda, che si sono visti accreditare in banca un bonus extra di alcune migliaia di dollari. Ora una nota del costruttore del Michigan afferma che il suo valore di mercato è aumentato di 5 volte nel giro di un anno e mezzo: se a metà 2009 le stime indicavano una cifra di 996 milioni di dollari, quelle del 31 dicembre 2010 affermavano che era di 4,8 miliardi, a riprova che il gruppo è uscito dal periodo più nero della sua storia, quando fu vicino il fallimento. Nel frattempo, forte anche dei risultati sulle vendite che nel 2010 (considerando gli U.S.A.) sono aumentate dell'11%, Chysler punta alla quotazione a Wall Street entro la fine dell'anno in corso, con azioni che allo stato attuale valgono 7,95 dollari e che a metà 2009 erano drammaticamente a 1,66. Fra i più contenti di questo stato dell'arte saranno i top manager, tra cui lo stesso Marchionne, i cui emolumenti sono contrattualmente legati all'andamento dell'azienda mediante stock options.
(Fonte: www.motori.it - 15/3/2011)

domenica 20 marzo 2011

Detroit e Torino, dall'auto al cinema


E Detroit venne a prendere lezioni di cinema a "Tollywood". Erano i giorni dolcemente autunnali del novembre 2010, quando nelle nebbie si cominciava a profilare la fusione Fiat-Chrysler e sul tavolo di Marchionne già s'intuiva sarebbe arrivata la querelle Mirafiori. Erano i giorni in cui la città mostrava la sua doppia faccia: da una parte le inquietudini per le sorti della mamma/fabbrica, dall'altra l'effervescenza degli eventi di Contemporary, la kermesse dell'arte contemporanea, intrecciata a quelli del Torino Film Festival (dove il biografo del rock Julian Temple, per un gioco del caso, presentava un film inchiesta proprio su Detroit). In quegli strani giorni a un gruppo di giornalisti in partenza per Biella dove Ricky Tognazzi stava girando la sua nuova commedia, capitò d'intercettare al Cineporto una comitiva dall'accento straniero (era dai tempi delle Olimpiadi che non si vedeva niente di così "esotico"), guidata dalla direttrice di View, Maria Elena Gutierrez, di madre lingua inglese. Erano i delegati della Motown, capitanati dal sindaco Dave Bing - già campione dei Pistons - sbarcati sotto la Mole per un "confronto tra città dell'auto" a cura di Torino Internazionale. "Rimasero stupiti e ammirati dal Cineporto, una struttura essenziale e funzionale - racconta il presidente di Film Comission, Steve Della Casa - forse si aspettavano una Cinecittà in miniatura". Fatto sta che gli americani visitarono, chiesero, annotarono. Con particolare attenzione. Come se avessero in mente un'idea. "Vollero sapere tutto: numeri, produzioni, servizi, location - spiega Della Casa - E noi raccontammo tutta l'esperienza decennale di Film Commission, legata a titoli noti anche oltreoceano come "La meglio gioventù" di Marco Tullio Giordana o "Il Divo" di Sorrentino". Il rinascimento cinematografico di Torino spiegato ai "cugini" americani, insegnato come un modello di riconversione post-industriale. All'insegna dello scambio di know how (voi ci insegnate a fare i SUV, noi le 500) prendeva forma sulla carta la sinergia Fiat-Chrysler. Un analogo scambio di competenze è avvenuto sul cinema e su come far nascere in una metropoli in declino un mercato del lavoro da decine di migliaia di occupati. Ora si scopre però che gli americani in visita alla cinecittà sabauda avevano già le idee ben chiare. Titolava l'altro giorno Le Monde: "Detroit imbocca la strada del cinema: la capitale del Michigan, culla disastrata dell'industria dell'auto americana, tenta di riconvertirsi come alternativa a Hollywood". Il reportage di Nathalie Brafman dà conto di nomi e numeri impressionanti: 300 milioni di dollari investiti nel 2010, 48 produzioni tra le quali "Le idi di marzo", il nuovo film da regista di George Clooney, e in arrivo Chris Nolan con il terzo capitolo della saga di "Batman". L'ex capitale U.S.A. dell'auto colpita da recessione sta insomma tentando, racconta Le Monde, una rinascita culturale riconvertendo le ex strutture industriali in studios e reinvestendo capitali nelle produzioni cinematografiche. Il primo è stato Clint Eastwood con "Gran Torino" (nome di uno storico modello Ford creato in onore della "Detroit d'Italia"), poi sono venuti Demi Moore, Richard Gere, Jack Nicholson, Scarlett Johansson... "Non pensavo fossero così avanti", ammette con un po' di stupore il presidente di Film Commission. Ma gli americani, si sa, nel business sono lesti. E c'è da considerare il volume globale dell'industria cinematografica U.S.A., con numeri che il cinema italiano - falciato dal ministro Bondi, per giunta - non si sogna nemmeno. Quella che ha raccontato Julian Temple nel bellissimo documentario "Requiem for Detroit?" è la storia di una metropoli-fantasma, uccisa dalla crisi economica, dal degrado sociale e urbanistico. Anche qui si sono vissute più volte la morte e la rinascita, sebbene le canzoni dei Subsonica non abbiano la rabbia desolata dei rap di Eminem. Le due ex Motor City, le Motown gemellate oggi in un piano industriale condiviso, procedono parallele anche nella riconversione sui set. "Tollywood" ha numeri più piccoli, ma ha alle spalle una storia. E forse non è soltanto sulla linea di produzione delle utilitarie che la città ha qualcosa da insegnare.
(Fonte: www.repubblica.it - 17/2/2011)

sabato 19 marzo 2011

Tute blu, orari e contratti a confronto: Fiat e Chrysler "sognano" la Germania


Hans, John e Francesco indossano la tuta blu da trent'anni. Producono automobili a Wolfsburg, quartier generale della Volkswagen, Detroit, dove ha sede la Chrysler, e a Mirafiori, cuore del sistema Fiat. Hanno contratti molto diversi tra loro. Francesco teme di fare la fine di John e spera di vivere un giorno come Hans. Hans si difende dall'incubo di finire come gli altri due. John considera Francesco un privilegiato e spera che perda un po' di salario per poter trasferire in America il denaro sufficiente a pagargli il dentista nei prossimi anni. Il sugo della storiella è che Hans, John e Francesco non si incontrano mai e per questo si fanno la guerra. Il confronto tra i contratti di Fiat, Chrysler e Volkswagen è stato promosso dall'associazione "Lavoro e Welfare" presieduta dall'ex ministro del lavoro, Cesare Damiano. I risultati della ricerca vengono presentati oggi pomeriggio alle 18 nei locali della sede nazionale del Pd a Roma. Lo storico Giuseppe Berta ha analizzato il contratto di Detroit, Piero Pessa ha studiato l'accordo di Mirafiori mentre Francescantonio Garippo, del consiglio di fabbrica di Wolfsburg, illustra il contratto Volkswagen. John ha perso molto con la crisi Chrysler di due anni fa. Ciononostante John fa più pause di Francesco: in Chrysler ci si ferma 5 minuti ogni ora lavorata. Questo significa che John si ferma 40 minuti perché lavora 8 ore. Francesco, che ne lavora solo 7,30 (perché ha la mezz'ora di mensa retribuita) si ferma 30 minuti mentre se fosse a Detroit avrebbe diritto a 37,5 minuti. Hans si ferma più di tutti: perché ai 35 minuti di pausa pagata ne aggiunge 20 di pausa non retribuita. Se vogliamo aggiungere ai 30 minuti di pausa di Francesco la mezz'ora della mensa, l'italiano si ferma un'ora, il tedesco un'ora e 5 minuti e il povero John è ultimo con 40 minuti. Dagli studi comparativi dei ricercatori è chiaro che per Francesco l'America è in Germania. Dove il sindacato è forte. La settimana lavorativa di Hans dipende dalla produzione: può essere di 25 ore o di 33 (per chi è stato assunto dopo il 2005, di 35). Il salario è sempre uguale: "Questo - spiega Garippo - è il motivo per cui le aziende non riducono la produzione in Germania trasferendola altrove. Perché anche se la produzione scende i salari vanno pagati lo stesso". Ogni ora di straordinario viene contrattata con il consiglio di fabbrica. A Mirafiori invece la settimana lavorativa è di 40 ore ma l'azienda può ordinare 120 ore annue di straordinario senza trattative. Un altro punto che divide le tre tute blu è il diritto di sciopero. John non ce l'ha: fino al 2015 non se ne parla. Francesco può scioperare solo su materie non regolate dal contratto di lavoro (che è molto dettagliato). Hans lo sciopero lo può fare se il 75 per cento degli iscritti al suo sindacato lo approva. A Wolfsburg la Ig metall rappresenta il 96 per cento dei dipendenti. Ma spesso rappresenta solo la metà dei lavoratori: così una minoranza può votare lo sciopero. Per 52 giorni dall'inizio di una vertenza non si potrebbe scioperare. Ma le aziende tollerano fermate spontanee. Ovviamente anche sul salario le differenze sono enormi. John porta a casa 1.300 euro ma deve pagarsi la pensione e l'assistenza sanitaria. Francesco ha una busta paga netta di 1.200 euro ma sta meglio di John perché ha la mutua e la pensione. Hans guarda tutti dall'alto: con una settimana di notte e un figlio porta a casa 3.700 euro lordi, 2.500 netti. Un ultimo particolare: l'azienda di Hans contende a Toyota e Gm la leadership mondiale.
(Fonte: www.repubblica.it - 31/1/2011)

venerdì 18 marzo 2011

Sei agenzie in gara per la creatività di Alfa Romeo


Sono In Adv, Lorenzo Marini & Associati, Lowe Pirella Fronzoni, Klein Russo Roma, Leagas Delaney e Kube Libre le agenzie messe in gara da Fiat Group per sostituire STV come agenzia di riferimento per il brand Alfa Romeo in Italia. Dopo l'acquisizione da parte di DDB Worldwide della maggioranza del capitale dell'agenzia torinese (oggi al lavoro sul 'competitor' Volkswagen), il Gruppo è infatti impegnato nella ricerca di una nuova agenzia da inserire nel roster dei partner creativi e che possa seguire il brand Alfa. Lo ha spiegato a Today Pubblicità Italia Maurizio Spagnulo, marketing communication director di Alfa Romeo, impegnato ieri e l'altro ieri a Torino in un evento organizzato per la presentazione della nuova Lancia Ypsilon, che si caratterizza anche per il restyling del logo Y, più 'bold' e glamour (firmato da Future Brand). Proprio per quanto riguarda il lancio di questo nuovo modello è stata già indetta una gara creativa tra Leo Burnett, Armando Testa, The Bank e CasiraghiGreco&. Leo Burnett rimane agenzia di riferimento di Fiat, mentre Armando Testa agenzia di coordinamento della comunicazione Alfa a livello internazionale, oltre a lavorare sul brand Lancia (si segnala l'ultima campagna per Musa che vede come testimonial Elisabetta Canalis). Proprio per aprile, inoltre, è attesa la nuova campagna istituzionale di Lancia firmata da AT. Quella per i due brand non sarebbe l’unica consultazione in corso, la casa automobilistica torinese starebbe per rinnovare la parte digital del brand Fiat con l’entrata di una nuova agenzia e la probabile apertura di una gara. “Requisiti fondamentali - spiega Spagnulo – saranno coordinamento multimediale, forte creatività, e che l’agenzia sia ben radicata sul territorio italiano, ma soprattutto cerchiamo una ventata di aria fresca. Per il lancio della nuova Ypsilon cerchiamo un punto di vista diverso, vogliamo una campagna paneuropea”. La nuova advertising per Lancia Delta porta la firma di Armando Testa e non avrà testimonial. “ Siamo anche impegnati sulla nuova campagna istituzionale di Lancia – spiega Rino Drogo, responsabile comunicazione Lancia, - che dal prossimo mese si integrerà con il brand Chrysler dando origine a una nuova dinastia automobilistica, concentrando il meglio delle due culture industriali”. Negli U.S.A., in UK e nei Paesi in cui Chrysler è presente, il brand commerciale rimarrà quello della casa automobilistica di Detroit, che ha appena affermato il proprio ritorno sulle scene con uno spot da 120” presentato al Super Bowl firmato da Wieden+Kennedy Portland, mentre in Italia e in Europa Lancia manterrà il proprio marchio. “Non escludo per per le prossime campagne – continua Drogo – compresa l’adv per il nuovo Suv Freemont, che sarà lanciato a giugno, la scelta di un testimonial, che si sono spesso dimostrati degli acceleratori per i brand”. Il 23 marzo si potrà vedere in anteprima alla serata di Gucci la nuova Fiat 500 by Gucci nata dalla collaborazione tra Fiat e la famosa casa di moda. Inoltre Fiat sarà sponsor per il 150esimo anniversario dell'Unità d'Italia e sarà a fianco di Sipra per le celebrazioni.
(Fonte: www.pubblicitaitalia.it - 23/2/2011)

mercoledì 16 marzo 2011

Olivier François all'Handelsblatt: la Thema meglio di Audi, BMW e Lexus


Olivier François, amministratore delegato di Lancia-Chrysler, torna a parlare di Lancia Thema e del brand italiano in un’ intervista rilasciata al quotidiano tedesco Handelsblatt. L’ad francese parla senza peli sulla lingua circa la nuova ammiraglia della casa italiana: “Chi guiderà la nuova Thema capirà che sarà la migliore di tutto il segmento E. La concorrenza in Europa per Lancia e in America per Chrysler sarà quella di Audi, Bmw e Lexus”. Una dichiarazione di peso che la dice lunga sulla speranza riposte in questo prodotto. A chi aggrotta il sopracciglio nel rivedere il nome Lancia affianco a quello dei principali "premium brand" tedeschi e nipponici, François risponde con una logica che apparentemente sembra ineccepibile: “Se le nostre auto hanno un’ottima qualità, performanti prestazioni e tanta tecnlogica e in più sono meno costose rispetto alle avversarie, perchè i clienti non le dovrebbero tenere in considerazione? ” Il problema rimane l’indifferenziazione della vettura rispetto alla 300C. Un tasto evidentemente dolente anche per François che si lascia andare ad una dichiarazione francamente discutibile: “La 300C è la migliore vettura che abbiamo fatto in America. E non l’avremmo offerta come Thema se questa non avesse avuto un look italiano”. Sicuramente il prodotto è valido e ciò non è in discussione. Ma qualificarlo come “stilisticamente italiano” ci destabilizza leggermente. Siamo sicuri che François abbia fatto questa dichiarazione in buonissima fede. Ma guardando a Ypsilon, Delta o anche la vecchia Thesis, riesce difficile trovare una continuità con la 300C sotto il profilo del design. Anche se quest’ultimo sembra abbastanza piacevole e riuscito. Più concrete le parole spese relativamente al nuovo panorama che si prospetta alla casa italiana dopo l’alleanza di Fiat con Chrysler: “Questa cooperazione con il brand americano porterà a volumi supplementari in Europa, dando dunque nuova linfa vitale alla Lancia”. Il matrimonio fra costruttori italiani e americani porterà in dote “modelli vitali per Lancia e volumi addizionali per Chrysler in Europa”.
(Fonte: www.handelsblatt.com - 9/3/2011)

martedì 15 marzo 2011

Per il 150° dell'Unità d'Italia aperto al pubblico il "Centro Storico Fiat"


Grazie ai festeggiamenti per i 150 anni dell'Unità d'Italia ha aperto i battenti a Torino il "Centro Storico Fiat". Fino al prossimo 27 novembre sarà infatti possibile visitare lo storico edificio liberty di via Chiabrera 20, che fu il primo ampliamento (1907) delle officine di corso Dante dove nacque l'azienda. La storia dell'unità della nostra nazione va quindi a braccetto con una della case fondatrici dell'industria automobilistica europea, la cui nascita avvenne l'11 luglio 1899 a Torino. Il pubblico potrà conoscere così più da vicino le origini della più grande impresa industriale privata italiana visitando il museo che sarà aperto la domenica, il lunedì e il martedì (orario 10-13/15-19) con ingresso gratuito. Il Centro Storico Fiat è stato inaugurato nel 1963 e negli anni è stato teatro di importanti avvenimenti per la storia della casa torinese come quello del 4 maggio 1966 quando Vittorio Valletta, storica figura dell'azienda fondata dal senatore Giovanni Agnelli, firmò l'accordo con l'Urss che portò alla realizzazione di Togliattigrad. Attualmente la costruzione ospita una collezione di automobili, cimeli, modellini e manifesti pubblicitari di artisti che abbracciano tutta l'epopea storica dell'azienda, dalla prima vettura, la 3 1/2 Hp, alla "Mefistofele", che nel 1924 stabilì il record mondiale assoluto di velocità. Troviamo poi il primo trattore, Fiat 702 del 1919; l'autocarro 18BL, utilizzato dalle truppe italiane nella prima guerra mondiale, il trasporto ferroviario con la Littorina degli anni '30 fino all'aeronautica con l'affascinante caccia G91, disegnato da Giuseppe Gabrielli e poi adottato dalla Nato. Ma lungo il percorso museale i visitatori incontreranno tante altre creazioni del marchio torinese come motori per navi, biciclette, frigoriferi e lavatrici fino alla ricostruzione di alcuni stabilimenti. Il pubblico ritroverà quindi la prima officina di corso Dante dove la produzione è ancora ricalcata sulle specializzazioni di mestiere e non esiste un ciclo continuo del prodotto oppure lo stabilimento del Lingotto, ultimato nel 1922, che destò l'ammirazione di le Courbusier per la modernità e l'eleganza del suo sviluppo verticale. Concludono il ciclo la ricostruzione di una catena di montaggio di Mirafiori negli anni '50 e l'ufficio del progettista Dante Giacosa, a cui si devono modelli indimenticabili antesignani della moderne citycar come la Topolino, la 600 e la 500. La recente ristrutturazione del Centro Storico ha permesso inoltre di ampliare gli spazi per la conservazione e la valorizzazione del patrimonio documentale e fotografico aziendale Fiat con 9.400 metri lineari di scaffalature, che permetteranno di riunire in un unico luogo un'infinità di documenti cartacei, 300.000 disegni tecnici, 5.000 tra volumi e riviste di automobilismo e storia industriale e più di 6 milioni di immagini (stampe, diacolor, lastre e negativi). Infine durante il periodo di apertura del centro storico sarà possibile ammirare la mostra fotografica "Immagini dall'Archivio Fiat 1980-2010'' che attraverso 40 scatti propone temi quali la sfida dei robot, l'impegno nella cultura, il ruolo di Torino all'interno di un contesto internazionale, i grandi eventi di comunicazione, il lancio di nuovi modelli, l'automobilismo sportivo e la ricerca tecnologica.
(Fonte: www.repubblica.it - 18/2/2011)

lunedì 14 marzo 2011

La Lancia Ypsilon potrebbe arrivare negli U.S.A.


Nuova Lancia Ypsilon negli U.S.A.? Per il momento non c’è niente di deciso, ma nulla vieta di vendere la piccola 5 porte torinese anche in America. Questo è quello che ci ha detto un responsabile Lancia durante un incontro a Torino con tecnici, manager e designer. Il fatto che la Lancia New Ypsilon venga presentata al Salone di Ginevra (3-13 marzo 2011) per poi essere venduta da settembre nel Regno Unito con il marchio Chrysler lascia quindi aperte nuove possibilità di commercializzazione su mercati finora sconosciuti alla Ypsilon.
CHRYSLER YPSILON - Per la Chrysler Ypsilon, questo il nome ufficiale, ci è stato confermato un look praticamente identico a quello della Lancia destinata all’Italia e al resto d’Europa. Le uniche modifiche riguarderanno i loghi Chrysler e la guida a destra, visto che la calandra a listelli orizzontali leggermente mossi da nervature verticali è stata disegnata per adattarsi sia allo scudetto italiano che all’ala stilizzata statunitense.
TUTTO DIPENDE DALLA FIAT 500 - Lo stesso manager Lancia ha però sottolineato che, per quanto ipotizzabile dal punto di vista commerciale e logistico, l’eventuale arrivo della Chrysler Ypsilon sul mercato U.S.A. è strettamente legato al successo della Fiat 500 oltreoceano. Se il pubblico americano accoglierà positivamente la “mini car” italiana si potrà allora valutare lo sbarco di un secondo modello europeo, magari a 5 porte, e la New Ypsilon potrebbe essere una delle papabili.
NUOVE TENDENZE E VECCHIE ABITUDINI - A sostegno di questa possibilità c’è anche il fatto che la nuova Lancia/Chrysler sfrutta il pianale della Panda, lo stesso utilizzato nello stabilimento messicano di Toluca per realizzare la 500 americana. L’ingresso della Ypsilon nella gamma Chrysler d’America servirebbe anche a ridurre drasticamente il livello medio di emissioni di CO2. Alcune perplessità restano invece sulla capacità di Ypsilon di fare breccia nel cuore degli automobilisti statunitensi, cui una Chrysler 200 sembra già piccola. L’unica opportunità di successo si potrà quindi giocare sul terreno della personalizzazione, dell’originalità e su un effetto moda che va curato e seguito molto da vicino.
(Fonte: www.omniauto.it - 22/2/2011)

domenica 13 marzo 2011

Giuseppe Berta (2): Fiat-Chrysler alla prova del nove


Alla presentazione del Salone di Ginevra Sergio Marchionne, parlando dei nuovi modelli Fiat e Lancia, ha spiegato come, dalla sua prospettiva debba operare un gruppo globale dell'auto. Si tratta di realizzare l'incrocio più conveniente tra prodotti e mercati, in maniera tale da avvalersi di competenze differenziate. Così alla componente italiana della nuova Fiat-Chrysler tocca lo sviluppo delle auto nei segmenti in cui è specializzata e il presidio del mercato europeo, che si ottiene nei segmenti più elevati grazie alla possibilità di commerciare le vetture progettate in America applicando ad esse i marchi storici, a cominciare da quello Lancia. Insomma, tra Fiat e Chrysler non è in atto una semplice giustapposizione di due esperienze aziendali che hanno da guadagnare da una convergenza, ma un'integrazione effettiva in cui mettere in comune specializzazioni e capacità. Tenendo presente questa logica si comprende meglio l'affermazione di Marchionne durante la sua audizione parlamentare di qualche settimana fa, quando ha sottolineato che non è stata la Fiat a salvare la Chrsyler, ma che entrambe le case automobilistiche sono andate l'una in soccorso dell'altra. L'affermazione è caduta nel momento in cui, nel confronto pubblico sulla Fiat, era più forte la domanda sui futuri centri direzionali del nuovo gruppo, per ricordare agli interlocutori che, col varo dell'alleanza, entrambe le imprese sono uscite per sempre dai loro confini d'origine. Essa torna utile per capire quale intenda essere la strategia di Fiat-Chrysler: fa leva sul principio secondo cui il patrimonio che risulta dalle competenze e dalle specializzazioni in possesso dei due contraenti è qualcosa di più di una semplice addizione. Ora la verifica andrà condotta sui mercati di riferimento. Le nuove vetture che recheranno sulla calandra il marchio Lancia o Fiat, essendo d'origine americana, dovranno riuscire a imporsi nel difficile contesto europeo, mentre in America la prima prova del fuoco è affidata alla capacità di penetrazione della Cinquecento, oltre che al rilancio della gamma Chrysler (che ha fatto segnare in febbraio una crescita contenuta delle vendite, salite del 13%). Il Salone di Ginevra cade peraltro nel momento di grave incertezza determinato dall'ascesa del prezzo del petrolio. Marchionne non si è voluto mostrare particolarmente preoccupato, dal momento che la flessione dei mercati europeo e italiano era stata scontata nelle previsioni e che la Fiat ha tradizionalmente presa in quei segmenti in grado di beneficiare un'attenzione dei consumatori per le auto con minori consumi energetici. Ma certo l'incognita che la nuova fase apre per il sistema internazionale dell'auto è notevole, com'è testimoniato dai timori avvertibili negli Stati Uniti. Là la ripresa del mercato è già in corso (febbraio ha assistito a un aumento delle vendite pari al 27% rispetto al mese corrispondente del 2010) e si teme quindi che i rialzi del petrolio possano causare una seria battuta d'arresto. La preoccupazione è perciò grave fra i produttori internazionali, specie per quelli maggiormente coinvolti nell'area europea. General Motors e Ford stanno interrogandosi sul modo per recuperare o almeno contenere la perdita di redditività che le loro auto registrano sul mercato continentale. Ma tutti i produttori sono impegnati in un'azione di ripensamento della loro presenza globale, in una congiuntura in cui la gara per l'egemonia all'interno del settore è aperta. Toyota, Gm, Volkswagen e Renault-Nissan (quest'ultima intenzionata a varcare anch'essa i limiti dell'alleanza finora realizzata) sanno sia di poter coltivare ambizioni egemoniche sia di dover condurre una partita estremamente delicata in un campo di gioco sdrucciolevole, dove è facile compiere passi falsi con ripercussioni potenziali molto costose. Fiat-Chrysler si colloca ancora al di qua di questo crinale, perché ha da portare a termine i numerosi passaggi che devono condurre all'esito finale della nascita del nuovo gruppo. Le scadenze sono molto impegnative e ravvicinate e Marchionne sa di non poterle mancare. Ecco perché prosegue nel percorso che ha intrapreso due anni fa e dal quale non può deviare. Una strada che, oltre a legare tra loro Italia e Usa, punta dritta in direzione dell'America Latina, col potenziamento della struttura produttiva del Brasile, già adesso asse portante del sistema Fiat, mentre focalizza la Russia come un mercato emergente che è imperativo presidiare, se si vogliono conseguire i volumi di produzione indispensabili per un assestamento solido. Tutto questo sullo sfondo di una metamorfosi della vecchia Fiat che non riguarda solo l'auto, come rilevano le voci e le indicazioni degli ultimi giorni sul nuovo prestito obbligazionario per Fiat Industrial. L'opzione globale non è infatti limitata al comparto automobilistico, dal momento che la scacchiera del mondo è da tempo il teatro operativo delle altre attività Fiat. È ormai indubitabile che il gruppo torinese è uscito per sempre dalla sua pelle e non va più giudicato sui parametri nazionali di una volta.
(Fonte: www.ilsole24ore.com - 3/3/2011)

sabato 12 marzo 2011

Giuseppe Berta (1): nel modello U.S.A. più fatti che diritti


Sembra persino paradossale che, nelle settimane passate, quando si parlava in continuazione di contrattazione collettiva, di turni e di pause di riposo e anche di modelli sindacali, non ci sia stato quasi nessun tentativo di mettere a paragone le esperienze negoziali concrete dell'industria dell'automobile. Si è discusso a non finire di diritti e di condizioni dei lavoratori, trascurando tuttavia di considerare la struttura degli accordi sindacali e quanto essi ci dicono delle forme effettive di esercizio della tutela sul luogo di produzione. Eppure, anche un raffronto sommario può dare indicazioni significative sulle relazioni fra imprese, sindacato e lavoratori e sullo spazio di trattativa che si delinea nell'applicazione delle regole sulla prestazione di lavoro. Un'analisi dell'accordo siglato fra la Chrysler e la United Automobile of America nell'aprile 2009, contestuale alla definizione dell'alleanza con la Fiat, è illuminante per la distanza che rivela fra le relazioni industriali negli Stati Uniti e in Italia. Inevitabilmente, l'attenzione è condizionata dalla controversia sui punti di attrito maggiore che si è scatenata prima e dopo l'accordo Fiat del 23 dicembre scorso. Anzitutto le pause, un terreno di scontro cruciale: nell'intesa Chrysler alla questione sono dedicate in tutto otto righe. In esse ci si limita a specificare che le pause sono calcolate in ragione di cinque minuti ogni ora lavorativa per ogni operaio dislocato sulla linea di montaggio, mentre i minuti scendono a tre ogni ora per i lavoratori indiretti. Non si aggiunge null'altro, così come si dice ancora meno per gli straordinari, stabilendo che saranno riconosciuti al termine del completamento delle 40 ore settimanali di lavoro. Un buon conoscitore dei contratti di lavoro italiani stenterà a ritrovarsi nelle lasche prescrizioni del general settlement Chrysler-Uaw. L'impressione è di essere dinanzi a linee-guida estremamente generali, con una flessibilità applicativa demandata a ogni singolo impianto produttivo. Temi che fanno parte della tradizione sindacale di fabbrica come l'organizzazione del lavoro ricevono pochi cenni, giusto qualche rinvio al Word Class Manufacturing come al paradigma di riferimento per un assetto produttivo in evoluzione. Vale certamente la considerazione che il contratto americano del 2009 è concepito per sottrazione rispetto al precedente del 2007, con declaratorie relative a tutto ciò che i lavoratori perdono rispetto a un passato ben più generoso, che siano in gioco i livelli retributivi (con un salario d'ingresso che penalizza fortemente i nuovi operai) o il complesso sistema di benefit di cui usufruiva il mondo del lavoro di Detroit da oltre mezzo secolo. La riduzione delle prestazioni sanitarie per i dipendenti della Chrysler è minuziosamente dettagliata, fino alla cancellazione del pagamento di farmaci come il Viagra e il Cialis. Da una lettura d'insieme dell'accordo si trae l'idea che esso costituisca, da un lato, uno strumento di sopravvivenza per un'impresa a rischio e, dall'altro, un segnale di un passaggio di fase, in cui la tutela sindacale ripiega, ma in attesa di ridefinirsi in futuro, non appena le condizioni del settore lo permetteranno. Ciò vale ovviamente per la negoziazione salariale, che la Uaw intende rilanciare non appena possibile. Ma è chiaro che non tutto potrà essere recuperato, a cominciare dai generosi trattamenti sanitari e previdenziali, risalenti al tempo in cui il "contratto di Detroit" era un patto leonino tra contraenti ben consapevoli della loro forza. Anche a quell'epoca, tuttavia, il sindacato non entrava direttamente sui nodi dell'organizzazione del lavoro. Perché la Uaw vi aveva rinunciato di fatto da quando era stata sconfitta nel primo grande sciopero nell'immediato dopoguerra per il principio del controllo sindacale, in cambio di una crescita incrementale dei salari e dei sistemi aziendali di previdenza e di assistenza sanitaria. Ma anche perché il pragmatismo del sindacalismo americano considera le regole sulla prestazione di lavoro come un processo di aggiustamento continuo, che si realizza nel vivo dei problemi di fabbrica. È una visione lontana da quella italiana, dove invece si tende a una normativa articolata e puntuale. Quest'ultima, comunque, non può estinguere il grado di discrezionalità che si esercita all'interno di un flusso di lavoro in movimento, dove le prescrizioni formali non possono mai coincidere con l'assetto sociale della produzione. La prospettiva del contratto Chrysler del 2009 rientra già nella logica della ricerca della partnership fra impresa e sindacato verso cui si è orientata in seguito la Uaw. Ma lascia capire che per fronteggiare il cambiamento nelle fabbriche occorre un'autorevolezza dell'organizzazione sindacale incompatibile con un'eccessiva frammentazione delle rappresentanze o almeno con una loro strutturale debolezza sul piano delle decisioni.
(Fonte: www.ilsole24ore.com - 25/1/2011)

venerdì 11 marzo 2011

NY Times: da Steve Jobs a Marchionne, il potere del look


Per un visita ad uno stabilimento di Chrysler in Canada, Sergio Marchionne indossava un pullover nero e una camicia a quadretti. Al salone internazionale dell'auto nordamericano vestiva ancora un pullover nero e una camicia a quadretti. E persino a una serata di gala a Los Angeles, di nuovo lo stesso abbigliamento. Fatti che potrebbero non stupire un osservatore italiano, abituato alle invariabili mise dell'amministratore delegato di Fiat e Chrylser, ma curiosi per gli americani che stanno imparando a conoscerlo. E così il New York Times si è chiesto: perché un dirigente che lo scorso anno ha guadagnato più di 5 milioni di euro e possiede case di lusso in tre Paesi si veste sempre nello stesso identico modo? Il quotidiano americano elenca altri illustri esempi di manager e dirigenti che proprio come Marchionne hanno fatto del loro modo di vestire, spesso molto informale, un marchio di fabbrica. Si parte dalla felpa con cappuccio di Mark Zuckenberg, il creatore di Facebook, per arrivare al dolcevita nero, jeans e scarpe da ginnastica di Steve Jobs, a.d. di Apple. "Il messaggio che Marchionne vuole veicolare è che non indossare giacca e cravatta sta a significare che l'azienda è più flessibile e quello che davvero conta va al di là del modo di vestire", ha dichiarato Cristiano Carlutti, ex dirigente Fiat, al Times. L'approdo di Marchionne a Fiat, avvenuto cinque anni fa, ha portato una ventata di novità: "Fiat era estremamente formale prima del suo arrivo", ha continuato Carlutti, ricordando di essere stato lungamente in dubbio su cosa indossare per il primo colloquio lavorativo con Marchionne: "Fu davvero un grande dilemma. Se avessi indossato una cravatta mi avrebbe considerato troppo formale, troppo rigido. Ma senza avrebbe forse creduto che volessi imitare il suo stile, così alla fine optai per la cravatta. L'unica cosa sicura è che qualsiasi cosa mi sarei messo avrei comunque sbagliato". Di recente Marchionne, incontrandosi con David Bing, il sindaco di Detroit, per la presentazione dello spot di Chrysler - andato in onda durante il SuperBowl di football americano - ha omaggiato il primo cittadino di un pullover nero, di quelli che di solito indossa lui. Bing, che pure ammira il look di Marchionne e si è presentato lo stesso giorno a una conferenza stampa vestendo il pullover, ha però fatto sapere che non ha intenzione di mostrarsi di nuovo in pubblico con uno stile tanto informale.
(Fonte: www.nytimes.com - 4/3/2011)

giovedì 10 marzo 2011

Dalla Y10 alla Ypsilon: 25 anni di leggenda


"Quest'auto deve essere perfetta sotto ogni aspetto", aveva detto Sergio Marchionne ai responsabili del progetto Lancia New Ypsilon. L'ultima generazione dell'utilitaria chic è indubbiamente la più importante per la storia del marchio. Con lei, Lancia non solo si è rifatta il trucco, ma è giunta al termine di un ciclo di sedute dallo psicanalista: la nuova Lancia non è più quella di prima. Dopo anni (forse troppi) di crisi profonda, un periodo di insofferenza ed isolamento in cui non c'era una vera e propria dimensione del marchio, il matrimonio con Chrsyler l'ha trasformata regalandogli una dimensione internazionale. Certo ora si deve lavorare, e tanto. L'impegno di promuovere i prodotti Chrysler in quasi tutta Europa, con il must di una certa ben definita italianità nelle finiture e in (per la verità pochi) particolari di design, non è certo un fardello da poco. Inoltre, questo nuovo gemellaggio tra Torino e Detroit ha indotto un rinnovamento degli stilemi Lancia, una piccola rivoluzione riconoscibile soprattutto nel frontale dei nuovi modelli: dopo oltre trent'anni, scompare la calandra a due lobi, con nervatura verticale (tipica delle Lancia storiche e reintrodotta l'ultima volta con la Delta del '79), per cedere il posto ad un elemento "sigle frame", come dicono dalle parti di Ingolstadt, a barre orizzontali. Non è poi un'eresia: tante Lancia del passato sono state presentate con una calandra analoga, dalla Appia III serie alle prime Gamma e Beta Montecarlo, ma il mercato non è abituato e per far "accettare" un simile cambiamento (che appare radicale), per far accettare questo profondo legame con Chrysler ci vuole un modello convincente. E la nuova Ypsilon, in quanto a capacità di persuasione, non può permettersi di sbagliare.
CLASSICA O INNOVATIVA? - In effetti di sbagli, le piccole "Y", ne hanno fatti ben pochi: non ci si poteva aspettare altro dalle eredi della storica A112. Tutto nacque alla fine degli Settanta: l'Autobianchi A112 era al suo ennesimo restyling e urgeva, senza indugio alcuno, definirne l'erede. Dopo il matrimonio commerciale con Citroen, interrotto prematuramente, l'Autobianchi tornò a correre da sola e in Corso Marconi decisero che sarebbe stata opportuna una fusione con il brand Lancia. Ovvio, quindi, che la discendente della A112, sarebbe stata una Lancia a tutti gli effetti. Nacque così il progetto Y10: Y era il prefisso che in Fiat davano ai lavori dedicati a Lancia (la Y9 era la Thema). Come per la A112, la meccanica sarebbe stata Fiat, ma questa volta, sarebbe stata Fiat a cedere motori e sospensioni alla nuova nata: avrebbe avuto l'ormai tipica impostazione torinese, con motore anteriore trasversale, sospensioni anteriori McPherson e le posteriori a ponte rigido. Ma se la meccanica era di facile definizione, diversamente fu per l'estetica. La nuova utilitaria, fatta salva l'identità Lancia, avrebbe dovuto essere classica o innovativa. E se innovativa... quanto? Al riguardo furono varate numerose proposte: Giugiaro, all'epoca stretto collaboratore di Fiat, presentò un modello che – di fatto – prefigurava la Uno: era il più accreditato tra i prototipi analizzati. Nel frattempo la sperimentazione continuava. Nel 1980 esordì la Panda: fu solo allora che furono definite le gerarchie. La nuova utilitaria Lancia sarebbe nata su questa meccanica, mentre la proposta di Giugiaro, "importante" anche per dimensioni, sarebbe diventata la sostituta della 127: nacque così la Fiat Uno, quella ufficiale che soppiantò anni di prototipi dall'estetica discutibile.
Y10: DA CENERENTOLA A REGINA - Intanto erano arrivati gli anni Ottanta e la A112 reggeva ancora, anche se drogata da continui aggiornamenti negli interni e modanature posticce che ne edulcorarono l'essenza. Continuava a macinare, ma non avrebbe sopravvissuto tantissimo. La meritata pensione per la "Baby Bianchi" finalmente arrivò. La nuova utilitaria, su base Panda, era ormai pronta al debutto: Ginevra, in quel marzo del 1985 diede i natali alla Lancia Y10. Il marchio divenne Lancia su quasi tutti i mercati – ad esclusione dell'Italia, e dei primi mesi di commercializzazione in Francia ed in Giappone, dove sopravvisse Autobianchi – mentre il nome fu ripreso, senza variazioni, dalla sigla del progetto: fu l'ultima volta in Fiat che optarono per una scelta del genere. Sotto pelle, l'Y10 era una Panda in tutto e per tutto, ad esclusione dell'assale posteriore "ad omega" (soluzione a cui si convertì, dopo poco, anche l'utilitaria Fiat). Inizialmente, i motori erano il noto 1050 "brasile" in versione aspirata e turbo ed il nuovissimo propulsore da un litro della famiglia Fire, nato da una jont-venture Fiat-PSA. Esteticamente la nuova nata si presentava con una veste "sconcertante". La linea a cuneo, modernissima, era caratterizzata dalla coda perfettamente tronca e chiusa da un piatto portellone non verniciato. Far digerire al pubblico – abituato alle linee morbide e rassicuranti della A112 – una simile soluzione non fu lavoro da poco. Di pregio le dotazioni e le finiture - soprattutto se si metteva mano al portafogli - con la possibilità di ottenere equipaggiamenti di livello come i quattro cristalli elettrici, la chiusura centralizzata, i comandi del clima servoassistiti o una strumentazione digitale completa di trip computer. L'auto subì la decisione di un posizionamento ambiguo: dimensionalmente era un'utilitaria, ma il prezzo faceva pensare tutt'altro. Questo, unito all'estetica "difficile" limitò moltissimo le vendite, tanto che ad inizio 1986, la Lancia dovette riposizionare l'intera gamma Y10: limando nelle finiture, che subirono un decadimento sensibile soprattutto nelle versioni base, e negli equipaggiamenti, ci fu un allargamento verso il basso con un'apprezzabile riduzione del prezzo d'acquisto. Da allora, la piccola torinese conobbe i fasti di una carriera inarrestabile. Nel corso degli anni si aggiunsero versioni su versioni, a partire dalle lussuose LX, fino alle 4WD e 1.3 GT i.e., passando per la Selectronic con trasmissione a variazione continua, mentre le dotazioni di livello superiore furono continuamente migliorate, come la disponibilità di un riscaldatore a controllo automatico. Da ricordare le versioni speciali Fila e Missoni fino alle ultime, del biennio 1991/92, Y10 Mia, Avenue, la ricercatissima Ego con interni completamente rivestiti in pelle e la versione blindata della carrozzeria Marazzi: l'Y10 Certa. Nel 1992, dopo oltre 850.000 esemplari, un profondo restyling diede nuova linfa al modello: il muso fu ridisegnato con fari più sottili e calandra affine allo stile Lancia inaugurato con la Dedra. Piccoli ritocchi in coda, dove continuava a regnare il portellone nero e verticale, ma con un nuovo disegno dei gruppi ottici. La plancia, sostituì l'impostazione spigolosa del passato con un moderno design ad onda. La gamma fu razionalizzata: tra le dotazioni di serie ed a richiesta, sparirono gadget come il trip computer o il riscaldatore automatico, mentre tra i motori, pensionati ormai da anni i motori “brasile”, già sostituiti dal Fire 1.1 nella sola versione aspirata, della vecchia serie rimase il 1.3, rivisto nelle misure caratteristiche di alesaggio e corsa, con la nuova cilindrata di 1297 cc. Disponibile in versione base, Elite, Avenue e 4WD, la gamma fu presto arricchita dagli allestimenti speciali Mia, Junior, Igloo (con climatizzatore), Ville e Sestriere, dedicata alla 4WD. L'Y10, prima utilitaria Lancia, smise di correre a 10 anni dopo oltre 1.100.000 esemplari: 1995 fu l'anno della Lancia Y.
DA Y10 A Y... - La genesi della Y fu molto più semplice. Ormai la strada era segnata e si trattava soltanto di affinare stilemi e caratteristiche del modello che si andava a sostituire. La base meccanica, questa volta, divenne quella della prima Punto. Lo studio delle due vetture nacque, praticamente, in contemporanea, tanto che la Y potè usufruire di una versione a passo corto del pianale della Punto. Il modello Fiat esordì nel 1993 e, dopo due anni di studi sul design, nacque la sorellina Lancia. L'Y10 fu un modello di rottura che agli esordi disorientò il mercato: la nuova Y non poteva essere un'auto banale. E le promesse furono mantenute. Pur senza gli eccessi della progenitrice, la Y seppe far parlare di sé. Sarà stato per la nervatura arcuata lungo il profilo, o per il particolare taglio del frontale e della coda (con i cofani in rilevo e gruppi ottici idealmente legati al profilo degli stessi) o, ancora, per la raffinatezza degli arredi e la scelta della strumentazione centrale: il modello in ogni caso non passò inosservato. Sotto pelle si ritrovavano tutte le caratteristiche della Punto, quindi un buon telaio dall'elevata rigidità strutturale e motorizzazioni moderne. Disponibili erano le unità della famiglia Fire da 1.2 e 1.4 litri (da 1372 cc), con cambi a 5 e 6 rapporti. Come il modello che andava a sostituire, la Y faceva dell'abitacolo il suo maggior punto di forza: la raffinatezza del design – la cui realizzazione fu affidata ad Enrico Fumia – era palpabile. Non un particolare era ripreso da altri modelli in produzione (neanche i comandi secondari) e la plancia, con la strumentazione centrale, la grande vasca portaoggetti e l'inserto in tessuto, dava alla piccola torinese una sofisticata aria radical chic. A tutto contribuì la tavolozza di tinte disponibili in opzione per gli interni e la carrozzeria, tra cui l'opzione Kaleidos, forte di oltre 100 tonalità differenti con cui caratterizzare l'esterno. Poco importò se non furono più disponibili versioni a trazione integrale, se il modello sancì la morte definitiva del brand Autobianchi e se si continuava imperterriti a snobbare motorizzazioni diesel: la Lancia Y fu da tutti riconosciuta come la degna erede dell'Y10. La carriera del modello, però, nonostante tutto, non potè definirsi completamente brillante, soprattutto sui mercati esteri. Ben presto le versioni 1.4 con trasmissione a 6 rapporti furono tolte dal listino, perchè ignorate dalla clientela, mentre si rese necessario un adeguamento della gamma. Alle iniziali versioni LE, LS ed LX, fu affiancata l'economica Elefantino Blu: la genialata di accorpare il noto animaletto simbolo delle ultime Lancia HF, abbinandolo con un rassicurante colore blu ad un allestimento semplificato dedicato ai neopatentati (con motore 1.1 Fire), pagò una cospicua iniezione di clienti. Alla Elefantino Blu seguì, alcuni mesi dopo, l'Elefantino Rosso: con motore 1.2 16v da 85 CV ed un allestimento "simil-sportivo", la Y assunse una veste nuova che non riuscì, però, a rinverdire i fasti delle Y10 sportive e, ancor di più, della A112 Abarth. Dopo cinque anni, nel 2000 il modello fu aggiornato: le nuove modanature in tinta, i nuovi paraurti e la calandra leggermente ridisegnata, pur non stravolgendo l'impostazione complessiva, ne imborghesirono il design. Questa seconda serie rimase in produzione circa tre anni e si caratterizzò per la costante presenza delle serie speciali (Elefantino Rosso, Dòdo, Vanity, Unica, Elefantino Blues) che, di fatto, soppressero la diffusione sul mercato dei normali allestimenti. La Lancia Y, in otto anni di carriera fermò il contatore a poco più di 800.000 esemplari.
...E QUINDI, YPSILON - La terza delle "Y" esordì, quindi, nel 2003. Il nome? Non Y, ma Ypsilon, per esteso. Questa nuova utilitaria nacque ancora una volta sul pianale accorciato di una Punto, ma in questo caso la derivazione è dalla seconda delle Punto, tecnicamente nota come 188 e nata nel 1999: la Punto del Centenario. Il salto di generazione tra la Y e la Ypsilon è stato sicuramente meno marcato che quello avvenuto tra la prima e la precedente Y10. La Ypsilon nacque nel segno della tradizione, più che del rinnovamento. Il frontale era caratterizzato da una grande calandra tipicamente Lancia e da grandi fari a sviluppo verticale, mentre in coda emergeva il grande portellone incorniciato da due sottili gruppi ottici, anche questi a sviluppo verticale. Esteticamente, nelle linee ed in certe proporzioni, emergevano richiami alla più nota delle piccole Lancia del passato: la Ardea del 1939. L'abitacolo presentava, evolute, le caratteristica di quello della Y, a partire dalla plancia con strumentazione centrale, grande vasca porta oggetti ed inserto in tessuto. In questo caso, però, la presenza della leva del cambio rialzata ed un design più classico, dava all'abitacolo un'aura di maggior importanza. Ad impreziosirlo c'erano elementi come il climatizzatore automatico bi-zona (a controlli totalmente separati tra i due lati), e le raffinate sellerie in pelle bicolore. La nuova Ypsilon fu la prima ad affiancare alle note motorizzazioni 1.2 e 1.4 (nella nuova cilindrata da 1368 cc) a benzina, un diesel: il piccolo 1.3 multijet, con potenze comprese tra 70 e 105 CV. Per la Ypsilon il restyling arriverà nel 2006 anticipato dalla versione speciale “Momo Design”: nuove finiture, nuovi paraurti e la possibilità di ottenere la verniciatura bicolore diventeranno i veri punti di forza della Ypsilon che, ad oggi, sembra voler cedere a malincuore il testimone alla “new Ypsilon”, dopo quasi 30 anni, la prima della serie ad avere per Lancia la stessa importanza che ebbe l'ormai matura Y10. Con la novità delle 5 porte, del nuovo family feeling e di una ritrovata "storica" parentela con la Panda (con cui condivide il pianale insieme alla 500), la Lancia New Ypsilon è più un avvicendamento: qui l'evoluzione ha assunto il peso di una rivoluzione.
(Fonte: www.omniauto.it - 6/3/2011)