Era il lontano 1982 quando una delegazione cinese della Shanghai Automotive Industry Corporation atterra a Torino per incontrare i vertici Fiat. Dopo poche ore lo stesso gruppo riprende il volo e atterra a Monaco continuando un dialogo instaurato con i tedeschi già nel 1978. Un anno dopo, la prima Volkswagen Santana esce dal primo stabilimento tedesco in Cina. Che cosa è successo a Torino? Una fonte ben informata, che vive ad Hong Kong da più di 40 anni e che era presente all’incontro dei cinesi con l’Avvocato Agnelli, ricorda che la delegazione era andata a proporre una joint venture per portare alcuni modelli italiani sul mercato cinese. Ciò che interessava ai cinesi erano modelli semplici, robusti e adatti ad un mercato emergente, e ritenevano quindi il prodotto Fiat adatto. Quello che è stato risposto ai cinesi è stato un netto no: «In Cina non avete le strade, dove pensate di metterle le auto? E quelle che ci sono, sono intasate da milioni di biciclette». Dopo questa risposta, basata su non si sa quali basi ed analisi industriali, la stessa delegazione ha ripreso il viaggio per Monaco. Tutto il resto è storia. Sono passati quasi 30 anni e tante cose sono successe in Cina e nel mondo. Quello che possiamo registrare ora è che ancora oggi, girando per le strade e le autostrade in Cina, incontrare un’auto prodotta da Fiat è come incontrare un elefante bianco in Thailandia: in pratica il brand è praticamente inesistente. Al contrario, i maggiori concorrenti di Fiat sono ben stabiliti ed in forte sviluppo. Secondo la China Association of Automotive Manufacturers (Caam), nel 2010 in Cina si sono prodotte più di 18.3 milioni di automobili con un incremento sull’anno precedente del 32,44%. Di queste, circa 4.3 milioni erano mezzi commerciali. Nel 2011 ci si aspetta di superare la quota 20 milioni e gran parte di questa espansione non avverrà nelle grandi città, già congestionate dal traffico, ma nelle città minori. I produttori di automobili in Cina sono circa 120, molti di questi anche molto piccoli (anche da 1000 auto all’anno), ma l’85% del mercato è occupato e dominato da marchi stranieri. Produttori locali come Chery Automotive Co. ed in particolare Geely Holding Group (il nuovo proprietario della svedese Volvo Cars), crescono velocemente ma restano ancora distanti nella loro marcia di avvicinamento ai produttori stranieri. General Motors diventa il primo produttore locale nel 2009 vendendo 1,83 milioni di automobili (seguito subito dopo da Volkswagen), e tenendo conto che il 40% delle componenti sono prodotti negli U.S.A. . I più importanti produttori del mondo sono quindi presenti in Cina con propri impianti: Mercedes-Benz, Ford, General Motors, Suzuki, Daihatsu, Honda, Subaru, Citroen, Toyota e la maggior parte di loro ha come partner i produttori di automobili cinesi più importanti, i "Big Three”. In aggiunta, per la prima volta la General Motors nel 2010 ha venduto più auto in Cina (2.35 milioni di vetture) di quante ne abbia vendute negli U.S.A. (più di 2.2 milioni vetture). Alla luce dei numeri e dei dati, la dichiarazione di Marchionne rilasciata la settimana scorsa a Calgary, Alberta, ad un meeting annuale di Ceo (ripresa da Edward Welsch su MarketWatch) suona quindi incomprensibile: «Il futuro di questa industria è destinato a portare alla eliminazione di players marginali», ha detto Marchionne. «A meno di non riorganizzare o dimensionare noi stessi per cercare di affrontare con ambizione la scala delle nostre attività, per essere in grado di competere con i cinesi, non avremo un grande futuro». Marchionne ha poi aggiunto che i produttori di automobili nel mondo sviluppato sono totalmente mal equipaggiati nell’affrontare la Cina come mercato e ad affrontare i cambiamenti delle politiche di Pechino. «Escludendo la Cina, ci saranno alla fine solo cinque case automobilistiche di grandi dimensioni nel mondo sviluppato», ha detto Marchionne, «ognuno dei quali produrrà da 5 a 6 milioni auto all’anno condividendo il design e l’architettura delle auto a livello globale». Leggendo queste parole, si resta allibiti dopo aver visto i numeri generati dai maggiori players mondiali in Cina. Viene da dire che, viste le premesse, probabilmente la Fiat non sarà tra questi 5-6 global player se non cambierà direzione e mentalità di approccio al mercato. Basta analizzare la sequenza delle scelte effettuate in Cina, con strategie definite in modo incomprensibile che hanno portato gli italiani all’uscita dal mercato negli ultimi 3 anni (semmai ci sia mai entrata realmente). Anche le premesse per il futuro di Fiat non sono confortanti, in un mercato dove ormai si producono più auto che negli Stati Uniti ed in gran parte da fabbriche gestite da concorrenti globali di Fiat. Ma andiamo con ordine e cercheremo qui di fare una breve carrellata dell’esperienza Fiat in Cina, tenendo conto in gran parte del settore auto, senza occuparci del settore industriale su cui sarebbe utile aprire un capitolo a parte. Fiat entra in Cina nel 1986 attraverso una joint venture tra Iveco e la Nanjing Automotive per la produzione di Daily, che diventa uno dei mezzi commerciali più di successo. Fiat Auto invece, dopo molti tentennamenti, entra nel 1999 in joint venture con la Nanjing Automobile. La produzione effettiva inizia solo nel 2002 con i modelli “Palio” e in seguito “Siena” e “Perla”. L’obiettivo dichiarato era vendere 263 mila auto entro il 2010. L’investimento è stato di 3 miliardi di Renminbi (circa 330 milioni di euro) e ha sempre operato in perdita, vendendo mediamente 30 mila macchine l’anno. Il fatto di aver introdotto sul mercato tre modelli vecchi, unito ai problemi di gestione che hanno portato a cambiare il presidente della Joint Venture quattro volte (e a rimpiazzare per ben sette volte il team di marketing e di vendita), e le basse vendite, ha segnato in maniera definitiva la collaborazione. La Joint Venture viene quindi sciolta nel 2007 e la fabbrica viene venduta alla Volkswagen. Fiat cerca di restare sul mercato con appena 4 mila auto vendute importandole dall’Italia. Fiat Auto si accorda quindi nel 2007 con Chery per formare una nuova Joint Venture dove l’obiettivo era produrre 175 mila automobili Alfa Romeo e Fiat in Cina, tuttavia l’operazione viene cancellata nel 2009. Nello stesso anno Fiat vende solo 454 auto tra Punto e Brava, sempre importate. Fiat Auto firma quindi un accordo nel 2009 per formare una Joint Venture con il Guangzhou Automobile Group Co. con l’obiettivo di produrre 140 mila auto e 220 mila motori l’anno. L’investimento è pari a 400 milioni di Euro. La produzione doveva partire nella seconda metà del 2011, ma sembra che non vedremo nulla uscire dalla fabbrica prima del 2012. Nel 2011 Fiat punta a vendere in Cina 300 mila auto entro il 2014, ottenendo così una quota di mercato del 2%. Per questo scopo si punterà sulle sinergie con Chrysler che è presente da anni in Cina. Anche in India e in Russia i risultati sono al di sotto delle aspettative e ben lontani dai target prefissati. Salta la Joint Venture con la Sollers, società di costruzione di automobili russa che copre tutti i servizi dalla produzione alla vendita e manutenzione, che preferisce dialogare con Ford, ed in India, pur avendo una forte partnership con la Tata, che siede anche nel consiglio di Fiat in Italia, le auto vendute sono solo 20 mila a fronte delle 130 mila previste. Da questa breve carrellata possiamo capire che esiste un problema di approccio e di comprensione del mercato, di scelta dei modelli, di governance ed in generale di organizzazione delle vendite. Un sito web cinese specializzato in automotive (Auto163) ha di recente intervistato il Global Operations Director di Fiat Lorenzo Sistino, il quale ha ammesso che Fiat ha effettivamente perso almeno 3 anni. In un mercato in così veloce sviluppo 3 anni vogliono dire molto, e Fiat ha reagito dando la colpa per prima cosa alla difficoltà di trovarsi un nuovo partner e successivamente alle lunghe trattative con il nuovo partner GuangZhou Auto. Non è mai colpa propria, sempre del mercato o degli altri. Sistino comferma la scelta di portare small cars and green technology nel mercato, spiegando così la scelta di portare la Fiat 500 in produzione in Cina. Da quello che si legge in rete e nei blog in Cina, sembra che il prezzo della mini car sarà attorno a 190 mila Rmb (circa 21.700 euro) cosa che lascia molto perplessi non solo gli esperti ma anche il pubblico più interessato, considerando il fatto che una piccola utilitaria, pur essendo “sexy” ed avendo tutti i vantaggi tecnologici possibili, è percepita come di basso valore. Si dovrà capire se il grande pubblico la penserà come gli esperti di Fiat, oppure finirà come con la Smart, che pur essendo prodotta e promossa da Mercedes (ben presente in Cina da decenni) non ha mai attecchito nel mercato in gran parte a causa del prezzo proposto e della tipologia dell’auto: troppo piccola. C’è poi da aggiungere che i concorrenti cinesi offrono molti modelli delle stesse dimensioni e molto competitivi, per esempio la QQ a meno di 5000 Euro, e ci si pone quindi ad un livello difficile da difendere e in cui competere. Dopo il fallimento del concetto della “World Car” che doveva essere espresso dalla Palio (che continua comunque ad essere proposto in giro per il Mondo), l’automobile che avrebbe dovuto penetrare i mercati emergenti, mi chiedo se in Fiat ci si sia mai sintonizzati con i mercati locali o se si sia semplicemente seguita la logica del “riciclare” impianti produttivi. Cercare di competere con i cinesi sul loro terreno è stata cosa molto ardua con modelli percepiti di basso livello e troppo comuni (come la Palio e la Siena, intendo) e che non sono stati accettati neanche in Europa, è stato partire con il piede sbagliato. Purtroppo i segnali sul futuro non sono incoraggianti dato che i modelli proposti per la Cina da Fiat non sembrano certamente seguire il trend del mercato. Vediamo cosa offrono i tedeschi, ad esempio. Almeno 30 modelli diversi, tra cui troviamo prodotti di punta come la A6, A8 assieme agli ultimi modelli Passat, Tiguan, Jetta, Golf, Touareg, ma anche modelli più piccoli come la nuova Polo, che è offerta in un paniere molto più ampio e quindi non come unica soluzione ed in un contesto di assistenza commerciale e tecnica sul territorio molto esteso. Da notare che molti modelli, come la Passat, sono stati anche adattati al mercato e quindi, dopo attente analisi di gradimento svolte sul pubblico, le auto Passat in Cina sono prodotte oggi più lunghe e più larghe delle corrispondenti europee. Questo è un esempio di adattamento dei prodotti al mercato, cosa che Fiat non ha ancora compreso che il semplice trasferimento di linee produttive da un paese all’altro senza porsi domande sui mercati, non sempre è una politica commerciale vincente, specie in Cina. Abbiamo sentito più volte parlare di introdurre l’Alfa Romeo in Cina, ma finora questo piano è rimasto sempre sulla carta. Nel corso degli anni, mi è capito di parlare con alcuni manager di Fiat e ho sempre fatto loro la stessa domanda: ma perché non provate a spingere e puntare su auto dinamiche e sportive come quelle prodotte da Alfa Romeo o Lancia, segmento che viene percepito a più alto valore aggiunto in Cina. Le risposte sono sempre state molto vaghe fino al punto di dire che l’Alfa Romeo è un marchio di nicchia che non potrebbe realmente prendere quota in Cina. Ma guarda caso, proprio il ceo di Volkswagen, Ferdinand Piech ha dichiarato che se Alfa Romeo fosse nelle mani di VW, le vendite potrebbero quadruplicare. Ma queste dichiarazioni sono state rimandate al mittente dal ceo di Fiat e Chrysler, Sergio Marchionne. Quello che è stato ribadito che Fiat si impegnerà nella creazione di un gruppo capace di produrre 6 milioni di auto, ma non si capisce come se si continuano a tenere sotto tono i gioielli della tecnologia italiana come le Alfa Romeo, puntando invece su modelli più popolari che persino in mercati emergenti come quello indiano e cinese non trovano gradimento. Quello che si percepisce in questo atteggiamento è un fenomeno che possiamo chiamare “colonialismo industriale” quando il compratore di un marchio cerca sempre di spingere e prediligere il proprio rispetto ai marchi acquisiti. Un mio amico italiano, ha portato la propria Alfa Romeo in Cina dove risiede e con la quale freccia per le strade di Shanghai. Mi dice che spesso viene fermato nei parcheggi o agli incroci da cinesi che gli chiedono dove la si può vedere e comprare. A conferma di quanto si sostiene qui, che per entrare in Cina per un marchio straniero, ci si deve posizionare su una fascia medio alta proponendo più modelli, meglio se gli ultimi modelli. Vediamo quindi i numeri relativi alle vendite ottenute da Ferrari e Lamborghini in Cina. Numeri impressionanti tant’è vero che un cliente cinese deve attendere anche fino a due anni prima di sedersi sulla Ferrari. Ad oggi, settembre 2011, la Lamborghini Holding S.p.A. ha venduto circa 200 auto sportive in Cina, eguagliando il numero totale di auto vendute l’anno precedente quando le vendite sono aumentate del 150% su base annua. Nel 2011 le vendite totali in Cina dovrebbero raggiungere le 300 vetture. Nel 2007, Lamborghini vendette solo 28 macchine nel mercato cinese, che rappresentano solo il 10mo mercato per la società, una di queste 28 è stata acquistata da un ristoratore cinese che l’ha posizionata nel proprio ristorante per attirare i clienti ad ammirarla. Emergono sempre più “nuovi ricchi” in Cina, e secondo il “2011 World Wealth Report” di Capgemini SA e Bank of America Corp., il numero dei nuovi milionari in Cina è cresciuto del 12% fino a raggiungere i 534.500 individui nel 2011, portando la nazione al quarto posto dietro a Stati Uniti, Giappone e Germania. Nel 2010 la Ferrari ha venduto circa 300 vetture e si prevede di arrivare a circa 600 vetture nel 2011. È da notare che il 20% degli acquirenti sono donne ed è forse questo il motivo che per Shanghai si vedono spesso Ferrari di colore rosa ma anche verde pisello. Porsche, produttore tedesco di auto sportive, prevede che le vendite nel 2011 in Cina supereranno le 20 mila vetture, in crescita del 40%. In questo contesto di lusso sfrenato, il governo cinese non dimentica però le problematiche del traffico e dell’ambiente. In un mondo che cerca di affrancarsi dal petrolio e di rendere le città più vivibili, persino in Cina il governo ha stanziato incentivi per chi produce auto elettriche e i programmi prevedono di arrivare a produrne 600 mila entro i prossimi 3 anni. Non è questo un segnale importante? Eppure persino Montezemolo ha espresso dubbi sulle auto elettriche. Ma siamo proprio sicuri che il futuro sono i Suv di Chrysler? In conclusione, è proprio vero che la storia delle aziende è in gran parte determinata in primo luogo dalle persone che spesso decidono senza avere tutte le conoscenze e la cognizione dei tempi che cambiano (ci riferiamo all’approccio dell’avvocato Agnelli di 30 anni fa) e da come si studiano e affrontano i mercati, dalla capacità di sapersi rinnovare e capire quando è il momento di voltare pagina. Purtroppo molte aziende italiane, e quindi non solo Fiat, quando si trovano di fronte a realtà che non riescono a comprendere, e quando non riescono ad adeguarsi alla velocità dei cambiamenti di mercato, come si è visto danno la colpa dei loro fallimenti a cause esterne e non controllabili. Purtroppo non è una giustificazione accettabile. Quello che emerge da quanto detto è che Fiat ha tutte le carte e capacità per potercela fare, ma si dovrebbero scardinare alcune convinzioni. Non c'è una ricetta pronta per Fiat, sarebbero da analizzare tanti fattori, ma avendo lo scrivente tenuto sotto occhio gli ultimi 15 anni di sviluppi di Fiat ed essendosi interessato alla loro storia in Cina da sempre, speriamo di poter provare a dare dei suggerimenti utili. Prima si dovrebbe creare un team di manager locali omogeneo ed in sinergia, e non in competizione, un gruppo misto, cinese e italiani, senza farli ruotare troppo, come spesso accade in Fiat. Anni fa Cesare Romiti dichiarava che il top management italiano in Cina deve essere sostituito ogni due anni per evitare che inizi a pensare come i cinesi, che si cinesizzi. Ed è proprio questo il problema di base. Ci vogliono proprio circa 2 anni per capire cosa è la Cina e come ci si debba comportare. Dare uno spazio di tempo così limitato rende la gestione delle imprese molto difficile perché gli interlocutori cinesi, che restano sempre al loro posto, si trovano poi a doversi misurare con persone diverse e questo rende più difficile il dialogo. In Cina fare business è molto personale e non si possono spostare le persone come fossero delle pedine, questo favorisce le incomprensioni e i ritardi. Il risultato della joint venture a Nanchino parla da solo. La Volkswagen ha sul luogo lo stesso team di manager da più di 20 anni, e il management intermedio tedesco è incentivato a restare in Cina non meno di 5 anni, molti di loro ci restano anche di più. In pratica si crea una struttura con una propria autonomia che non debba dipendere da chi resta a Torino che, molto probabilmente, non riesce a rendersi conto di come le cose procedano in Cina. Parte del design e dello sviluppo del prodotto è fatto in Cina, così da rispondere alle stesse esigenze del consumatore cinese che è anche molto esigente. Quindi, non calare prodotti dall’alto, ma creare anche dei prodotti appositi nel mercato. Altra cosa importante è il network di vendita. Nella dottrina Fiat questo è sempre esterno, richiedendo molti investimenti ai dealer. Il processo della loro qualifica è anche molto complesso (almeno per quanto dichiarano alcuno ex dealer Fiat che sono passati a vendere auto tedesche). In genere nelle fasi di penetrazione del mercato, sarebbe meglio creare delle strutture proprie, favorite da ampio supporto, specie per l’assistenza tecnica, dalla quale poi sviluppare il network in franchising di assistenza e vendita. Anche il training è una componente fondamentale da non sottovalutare. Formare la propria rete di servizi è la politica vincente. Quella che chiamiamo la dottrina Fiat dovrebbe essere quindi completamente rivista per poter ripartire in Cina con il passo giusto. E, perché no, con due partner produttivi differenti, come Chery e come Guangzhou Automobile Group Co. che, come abbiamo detto, è pure produttore di marchi giapponesi di successo. Le premesse per riuscire ci sono tutte, ora è solo una questione di saper dirigere bene gli investimenti e di avere il coraggio anche di inserire persone esterne al proprio interno: perché non chiamare tedeschi e cinesi di successo tra le proprie fila? Avrei infatti preso persone con esperienza tedesca o da General Motors piuttosto che inserire sinologi dall’Italia, come accade in Fiat, che sapranno sicuramente bene la lingua ma che forse non sanno bene che cosa vuole dire costruire una strategia industriale e di mercato complessa come quella che si richiede in Cina.
(Fonte: www.linkiesta.it - 22/9/2011)