sabato 3 marzo 2012

Delocalizzare non conviene più, ma l'Italia non è all'altezza della sfida


E' convinzione diffusa che la competizione globale imponga l’abbattimento dei costi di produzione, tra i quali figura in maniera rilevante il costo del lavoro. E se mercati del lavoro protetti, come quelli delle economie avanzate, implicano salari relativamente alti, negli scorsi decenni molte aziende hanno delocalizzato parte del processo produttivo verso i cosiddetti paesi emergenti, dove la legislazione a tutela dei lavoratori è spesso carente, i sindacati deboli o inesistenti e si ottiene manodopera a costi molto bassi. La Cina è stata in questo senso una delle mete preferite. In effetti, nel 2000 il costo del lavoro nella regione cinese del delta del fiume Yangtze era di 0,72 dollari orari, contro un salario medio che, in uno stato americano come il Mississippi, raggiungeva i 14,94 dollari all’ora. Dato l'ampio differenziale a livello di salari, la scelta di delocalizzazione può essere considerata, e per molti versi è stata largamente considerata, come semplicemente attinente a un puro ragionamento economico e non come espressione del cambiamento dei rapporti di forza tra lavoratori e datori di lavoro, spostatisi con decisione a favore dei secondi a partire dagli anni '80. Il costo del lavoro, tuttavia, è solo una parte, a volte persino marginale, dei costi di produzione totale: il costo del lavoro negli stabilimenti Fiat, ad esempio, contano - per ammissione dello stesso Marchionne - solamente per il 7-8% dei costi totali, così che occorre considerare tutta una serie di altri fattori per valutare la redditività di tale scelta (nel caso della delocalizzazione verso la Serbia della Fiat una motivazione molto più rilevante era la disponibilità, oltre l'Adriatico, di consistenti aiuti di Stato a disposizione dell'azienda torinese). Il costo del lavoro, dunque, va ponderato per la produttività dei lavoratori e per gli schemi di incentivi locali e vanno, inoltre, aggiunti i costi di trasporto delle merci, i costi di manutenzione dei macchinari, i costi di difesa dei diritti di proprietà, i costi di reperimento dell’energia necessaria al funzionamento degli impianti e infine i rilevanti costi "burocratici" rappresentati dalle tasse, dai dazi e dalla corruzione. Anche sommando tutti questi fattori (ma escludendo i costi di trasporto e i dazi), nel 2000, secondo i dati del Boston Consulting Group, trasferire la produzione dal Mississippi al fiume Yangtze avrebbe comportato un risparmio totale di circa il 21%: quota rispettabile ma, a dire il vero, nemmeno così elevata, considerati i costi a cui un impianto è sottoposto in fase di avviamento, prima cioè di raggiungere una economia di scala, che permette di risparmiare esponenzialmente all’aumentare dei volumi produttivi. Senza contare che, dall’inizio del nuovo millennio, i salari cinesi nelle zone più sviluppate hanno iniziato ad aumentare ad un ritmo del 15-20% l’anno, mentre la produttività dei lavoratori non sempre riesce a tenere il passo. A causa del progressivo esaurimento dell’esercito di riserva di manodopera agricola, si calcola che nel 2015 il salario orario nella nostra zona di riferimento, il delta dello Yangtze, sarà pari a 8,16 dollari all’ora, mentre il salario dei lavoratori del Mississippi non sfonderà i 24 dollari orari: si tratta di un aumento di oltre 8 volte nei salari cinesi contro un aumento di poco più della metà di quelli americani, nello stretto giro di 15 anni, a fronte di una produttività attesa che, fatta 100 quella statunitense, fornirà un input pari a solo il 38% per un lavoratore cinese. Il risparmio di produrre in Cina nel 2015 è dunque destinato a scendere dal 21% al 10%, una quota che non copre nemmeno i costi di trasporto: è per questo che numerose aziende americane stanno già iniziando a rimpatriare la produzione. Il secondo decennio del XXI secolo può dunque essere quello dell’inversione di tendenza: sempre più aziende torneranno a produrre in Europa e Stati Uniti. Questa è una buona notizia per l’Italia? Purtroppo no. Il nostro Paese, infatti, non fornisce alcuna garanzia in termini di capacità d’innovazione, formazione della manodopera, abbattimento dei costi burocratici, creazione di infrastrutture. AILOG (Associazione Italiana di LOGistica e supply chain management) ha calcolato che i costi di logistica per le piccole e medie imprese italiane rappresentanto un elevatissimo 9% dei costi totali, a causa principalmente di ritardi infrastrutturali. Un Paese che impone costi così elevati alla spina dorsale del proprio sistema produttivo è un Paese destinato alla progressiva marginalizzazione nella competizione economica internazionale. E’ su questi temi che i buoni amministratori dovrebbero iniziare a confrontarsi pubblicamente per decidere, senza aspettare necessariamente l’intervento del Governo, come fare in modo che le nostre imprese escano dall’impasse che le sta facendo soffocare, perché con loro entra in crisi una vasta fetta del sistema di produzione della ricchezza nazionale. Romano Prodi ha proposto su Linkiesta la costituzione, "(...) anche con l’aiuto del “digitale”, di una larga “supply chain” per le nostre produzioni che non si limiti certo al livello nazionale ma si espanda da una base europea ad un accesso globale. Solo costruendo uno scenario complesso di questo tipo, possiamo, in Europa, competere con i sistemi produttivi asiatici che su questo aspetto, e non più sul basso costo del lavoro, rafforzano il loro crescente successo". Resta da capire precisamente come, in quali tempi e con quali modalità, giocare questa fondamentale sfida nelle dinamiche produttive dell'economia globale del futuro.
(Fonte: www.linkiesta.it - 10/2/2012)

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