lunedì 7 settembre 2009

Staglianò (la Repubblica): così Detroit accoglie il nuovo padrone italiano di Chrysler


Per sradicare un nomignolo può non bastare una vita. Trasformare la ruggine in oro, poi, è compito proibitivo anche per il più talentuoso alchimista. Qui Fiat si leggeva «Fix it again, Tony», «aggiustala un’altra volta, Tony». Portiere che chiudevano male, sospensioni sganasciate dalle buche sulle freeway, carrozzerie corrose, soprattutto. C’era una volta in America. Oggi invece a Royal Oak, allegro sobborgo di Detroit, hanno ribattezzato Fiat Drive una delle vie più centrali. «Dove vivere, mangiare e fare shopping meglio che da noi?» ha spiegato il promotore, l’italo-americano Luigi Cutraro, che punta sulla "captatio benevolentiae" toponomastica per intercettare le brigate di manager torinesi e le legioni di fornitori che spera faranno la spola dall’Italia con la vicina Auburn Hills. È lì, nel compound mastodontico secondo per dimensioni solo al Pentagono, che ha sede la Chrysler. E dove regna – con la benedizione di Obama, un altro da cui tutti si aspettano miracoli – il neo-amministratore delegato Sergio Marchionne, l’artefice del cambio di marcia nella reputazione. Chiedete a chi vi pare, economisti, politici, operai e otterrete gradazioni differenti della stessa risposta: pollici alzati, sorrisoni, inevitabili citazioni strascicate di «Ferrari» e «Pininfarina». Chiamatelo «effetto 500». Niente più tracce di ossidazione sul buon nome delle lamiere, e neppure di polvere: è tutto un gran luccichìo. Al punto che i «plebei» piemontesi potrebbero addirittura riuscire dove hanno fallito i «patrizi» tedeschi: salvare il malato terminale, la terza casa automobilistica degli Stati Uniti. E allora sì che sarebbe Gran Torino (film che fra l’altro han girato da queste parti). Le aspettative sono alte, gli ostacoli pure. La capitale dell’auto sembra una città da troppo tempo in respirazione artificiale. Alla fine degli anni 60 gli scontri razziali fecero fuggire in massa i bianchi. Col paradosso che in centro abitano i poveri, in periferia i ricchi. A dowtown case abbandonate, e poi bruciate, sono diventate orti dove scorrazzano fagiani selvatici. Fuori ci sono le fabbriche, ma alcune rischiano di chiudere. Delle Big Three, con GM e Ford, il boccone italiano è il più piccolo (10 per cento del mercato U.S.A.) ma non per questo meno strategico. Se il trapianto verrà rigettato sarà una tragedia per 50 mila operai e per il futuro dell’industria. «Siamo già abituati a essere guidati da stranieri. E gli italiani non potranno fare peggio dei tedeschi» esordisce Paul Ingrassia, che sta finendo Crash Course, un libro che racconta la delicata transizione, «e se per restare in attività si dovrà dire signorsì a qualche gentiluomo piemontese credo che tutti a Detroit siano pronti a pagare questo prezzo». La cura crucca è durata otto anni. Il malato non rispondeva – anche nel senso che c’era poca comunicazione tra i rispettivi ingegneri – e da Stoccarda mandavano rinforzi, sino a un contingente di 200 persone. Qualche miliardo di dollari dopo hanno svenduto al fondo Cerberus. Fiat è subentrata col 20 per cento, Washington (e Montreal) con il 13 e il restante 67 è in mano al fondo pensione dei sindacati automobilistici, senza potere di gestione però. «Ve vill do it this way», fanno il verso ai tedeschi. Ed è la battuta più feroce su quel periodo. I nuovi padroni non accettavano un dialogo, ma un matrimonio dove non si parla non dura. E infatti. «Noi non corriamo questo rischio» assicura Gualberto Ranieri, da due mesi responsabile della comunicazione della conglomerata: «Dei 23 dirigenti solo tre vengono da Fiat, gli altri erano già qui». E poi è lo stile Marchionne che fa la differenza. La leggenda vuole che uno dei primi giorni abbia ripreso duramente due suoi collaboratori italiani rei di non parlare inglese anche tra loro. «Windsor, a cinque minuti da qui, ma sul versante canadese» spiega Guarnieri «è dove ha preso la sua terza laurea». Sono sopratutto i giornali locali a contenderselo («è uno di noi»), sino a sfiorare il ridicolo con «manager canadese-italiano». Sta di fatto che, per ribadire, ha rinunciato all’ufficio al quindicesimo piano dove sedeva il predecessore teutonico per uno al quarto, vicino alla produzione. E mentre i tedeschi avevano affittato un charter per rientrare in patria nel weekend lui usa quei giorni per le riunoni plenarie. Anche gli americani, espropriati del golf e del barbecue, non sanno più cosa pensare. «La pizza ormai ce la scippano tutti: qui la fanno i macedoni, buonissima» confessa il console Marco Nobili, «ma i motori della Fiat sono molto più difficili da copiare». È un rinascimento italico, quello che ci raccontano da queste parti, che va ben oltre l’auto. Conferma Massimo Denipoti, presidente dell’Italian American Alliance for Business and Technology, veneto e pratico come il diplomatico: «È stata la decade della riscossa. Quando sono arrivato nel ’92 ricordo i cartelli protezionisti nei parcheggi “qui niente macchine straniere”. Avevo paura a parlare mentre ora sono loro che ci chiedono consigli». Anche facendo un po’ di tara all’italian pride, restano alcuni numeri inconfutabili. Tipo un investimento Eni da 5 miliardi di dollari, o l’acquisizione da parte di Campari di uno storico marchio di whisky del Tennessee, o l’apertura della sede statunitense di Berloni a Troy, cintura residenziale di Detroit. Il glamour culturale non è una novità, ma avanza. Da maggio ha aperto a Birmingham, per la prima volta da queste parti, l’istituto Dante Alighieri. Nella stessa località, a 15 minuti dalla Chrysler, avevano preso casa i manager tedeschi. I locali contano sul bis nostrano. E serve a poco ricordar loro che per ora sono solo in tre e che l’idea è di valorizzare le risorse del posto. «È tutto pronto» garantisce Carolyn Bowen-Keating della Weir Manuel, una delle più floride agenzie immobiliari, mostrandoci un faldone con il logo Fiat che presenta le varie soluzioni abitative, con affitti dai 2000 dollari per gli appartamenti ai 6-8000 delle tuscan houses («chi se non loro può apprezzarle?»). Va particolarmente fiera di una sezione dedicata agli american values da insegnare ai nuovi arrivati. Se c’è uno che sa quanto siamo ben voluti a questa latitudini è Alberto Negro. Nella sua casa nel bosco, costruita da un allievo di Frank Lloyd Wright, è passata tutta la real casa dell’auto mondiale. Lui è a Detroit dal ’72 quando, dopo aver fatto presente all’Avvocato che giapponesi e americani lavoravano come matti per ridurre le emissioni, questi gli dette carta bianca («faccia ciò che è necessario») per recuperare il tempo perso. Fu tra i primi a vedere gli air bag e altre dotazioni che sarebbero diventate standard. «Non sono mai stato guardato con condiscendenza per la mia nazionalità, piuttosto il contrario». Un paio di anni fa ha lasciato, per limiti di età, e il laboratorio ha chiuso con lui. «La crisi economica e la preoccupazione ecologista stanno creando il momento perfetto per la Fiat: c’è bisogno come non mai di auto più piccole e di motori più puliti». Le specialità della casa. Per non dircelo da soli siamo andati sino ad Ann Arbor dove ha sede il Center for Automotive Research, in sigla Car. Il chief economist, quello che anche la Casa Bianca ha interpellato, si chiama Sean McAlind: «Certo, la vostra forza sono i motori, capaci di fare anche 60 miglia per gallone che, con la benzina a oltre 4 dollari al gallone, sono una benedizione». È la soglia psicologica che potrebbe far abbandonare i suv ai cittadini della «nazione d’asfalto». «E poi avete ingegneri bravissimi, molto desiderati in Cina» prosegue. Meravigliarsi che gli italiani comandino a Auburn Hill è niente di fronte al fatto che il mercato asiatico dell’auto si avvii a valere il triplo di quello statunitense. C’è una gag, attribuita a Lee Iacocca, per cui quelli della Ford li riconoscevi per gli abiti blu, alla Gm grigi e alla Chrysler per le maglie a collo alto e il fatto che preparavano i cocktail. Ecco, solo con loro potevano andare d’accordo gli italiani. Gli altri sarebbero stati troppo arroganti, ride serissimo l’economista. La notizia del giorno è che la 500 sarà prodotta in Messico. «D’altronde» fa i conti su un foglio «un operaio messicano costa 7,12 dollari all’ora contro i 58 di uno statunitense. Solo così possono fare utili». I sindacati, ovviamente, vorrebbero non starci. Però non sono più in salute delle fabbriche che dovrebbero proteggere. Le sezioni locali smobilitano. Alla fine troviamo il presidente della Local 1700, vicina all’impianto Dodge di Warren. «Apprezziamo molto l’intervento della Fiat» mette le mani avanti Bill Parker «lei vuole entrare in Nord America, noi nel mondo. Quel che mi preoccupa è però il fatto che sin qui sono stati chiusi solo stabilimenti U.S.A. . E considerato che sono stati spesi molti soldi dei contribuenti, non è accettabile». Pochi sono più pragmatici degli operai. Davanti alla fabbrica di Mound Road c’è Chester Fried, uno spaccio dove fanno un salto nei pochi minuti di pausa a mezza mattinata. «Non dico niente, lavoro qui da 37 anni e voglio continuare a farlo, finché dura» si schermisce un nero quasi sessantenne, tuta blu e occhiali di protezione. Un afro-americano più giovane si limita a constatare che gli «italiani sono ok, tutto è meglio che non avere il lavoro». Per dieci che rifiutano di commentare, acconsente il primo bianco: «Senti, ho un mutuo da pagare. Questa è l’unica preoccupazione. Il giudice fallimentare ha già permesso di mandar via dei lavativi, spero che gli italiani continuino a farlo». Niente orgogli di campanile. Franza o Spagna, basta che se magna. Robert Ficano è il nipote di un siciliano che negli anni 20 venne qua perché 5 dollari al giorno alla catena Ford gli sembravano un sogno. Lui ora è il «governatore» della contea di Wayne, quella di Detroit: «Quello che i tedeschi non capivano è che abbiamo più ingegneri qui che in tutto il resto degli U.S.A. . Ci manca lo stile, e quello lo portate voi». Sa dire tre cose in italiano tra cui «calzino». Come Marchionne ha rivoltato la Fiat. E spera che farà anche con Chrysler.
(Fonte: http://stagliano.blogautore.repubblica.it - 4/9/2009)

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