La fase più emergenziale della crisi finanziaria italiana sembra - per il momento - essere stata superata, ma c'è tra noi una guerra ancora tutta da combattere. È quella del lavoro. Un conflitto su scala globale esploso da quando la mondializzazione e la digitalizzazione della produzione hanno spostato ed espulso migliaia di lavori dalle nostre economie; da quando i nuovi Paesi si sono affacciati nel cammino, se non della libertà, almeno della storia, da quando il computer e l'automazione hanno sostituito tanto lavoro umano e manuale. È la creazione di lavoro la priorità che abbiamo davanti. E l'Europa questa guerra può vincerla. Ha tutte le armi per farlo. Purché abbia ben in mente qual è la guerra che sta combattendo e quali sono le armi di cui dispone per vincerla. La sfida con i Paesi emergenti non si combatte ormai sul costo del lavoro. Come ben spiegava qualche settimana fa Romano Prodi, le distanze rispetto a 20 anni fa si sono attenuate: un lavoratore che in Asia dieci anni fa costava 40 volte in meno rispetto all'Europa, oggi costa cinque volte in meno. Sempre molto, ma il campo di gioco si va livellando. Non è più su questo che la Cina vince oggi la sua battaglia. È piuttosto sulla capacità di offrire innovazione continua e una supply chain efficiente e competitiva. Sarebbero guai per l'Europa se ci attardassimo a combattere con gli occhi rivolti al passato. Se pensassimo che competitività e produzione si difendono con un'anacronistica battaglia sulla riduzione dei costi o sull'alleggerimento del welfare. È tutt'altro. Sono gli investimenti in tecnologie avanzate, in ricerca, in innovazione quelli che ci permetteranno di produrre ancora lavoro e lavori per i nostri giovani. È in questo contesto che va letta la vicenda Fiat. Quando Sergio Marchionne spiega che fa la 500L in Serbia perché i salari sono geometricamente più bassi sembra dire un'ovvietà, ma in realtà sbaglia. La sua apparente logica cartesiana è contraddetta dal fatto che a Wolfsburg o a Stoccarda si fanno automobili con un costo del lavoro alto ma con buoni profitti. E ciò avviene per il semplice fatto che lì sono stati fatti investimenti in innovazione e qualità che permettono una produzione di alta qualità collocabile sul mercato a prezzi alti. Se invece non investi in valore aggiunto e innovazione scapperai sempre e non risolverai i problemi del tuo Paese. Bisogna produrre con costi italiani prodotti di qualità italiana, così come i tedeschi stanno vincendo la loro guerra del lavoro con costi tedeschi e qualità tedesca. Le politiche pubbliche devono certamente contribuire a ridurre il peso del fisco sui salari, ma senza una scommessa, pubblica e privata, sugli investimenti in innovazione e qualità l'Italia, con la sua seconda manifattura d'Europa, è destinata a declinare inesorabilmente. Pur ammirando le indubbie capacità di Marchionne, contesto radicalmente la sua argomentazione per la quale in un mercato debole non si investe. Se nel 2014, come dice, arriverà una ripresa della domanda di automobili, è evidente che bisogna investire ora, in modo da arrivare con una catena produttiva innovativa e con buoni modelli all'appuntamento con i nuovi potenziali clienti. Per non parlare della catena di vendita, punto di forza tradizionale di Fiat, che di questo passo tra un anno sarà smantellata. La Fiat deve investire per fare automobili che portino nelle loro linee e nei loro motori il marchio positivo della qualità italiana. Altro che Serbia. Ma loro stessi sembrano non crederci più. Rivendicano l'investimento nella Bertone, ma il segno della sfiducia è nell'aver perso in favore di Volkswagen la capacità di design e di alta tecnologia di Giugiaro. Eppure è lì, fuori Torino, a 15 chilometri dagli stabilimenti Fiat. Per non parlare della favola degli investimenti da 20 miliardi in Fabbrica Italia. Innanzitutto quando furono annunciati il calo delle immatricolazioni in Europa era già in corso (da 16 milioni di vetture nel 2007 a 13,8 nel 2010), quindi il quadro non è così cambiato. Ma soprattutto quella cifra era dall'inizio chiaramente sovradimensionata: da una parte, infatti, non è nelle disponibilità di cassa netta di Fiat; dall'altra equivarrebbe alla spesa necessaria per far nascere 20 fabbriche nuove, un'assurdità. Era uno specchietto per le allodole. Ma non è Fiat il cuore del problema che abbiamo davanti. Il problema è il lavoro, l'occupazione oggi in Italia e in Europa. Se mi sono dilungato sulla vicenda del Lingotto è proprio perché è simbolica dell'incapacità di guardare a questo problema, e a quello strettamente connesso del futuro del manifatturiero italiano, in chiave moderna. Vedo intorno a me troppi imprenditori con l'ansia della delocalizzazione per ridurre i costi del lavoro. Ma non è questo il global manufacturing che dobbiamo inseguire. Anche perché spunteranno sempre Paesi che produrranno a costi inferiori rispetto ai nostri. È scommettendo sull'Italia e l'Europa, sulla qualità delle nostre produzioni, che potremo difendere il primato del nostro manifatturiero. E del nostro lavoro. Come diceva Cipolla, il segreto del miracolo italiano è stato nella capacità di produrre all'ombra dei campanili cose belle, che piacciono al mondo. Lo è stato da sempre. Non è che fosse economico costruire statue in Toscana all'epoca di Michelangelo, ma quelle statue si vendevano bene perché erano belle. Noi oggi invece ci lasciamo scappare Giugiaro e andiamo a fare macchine in Serbia. Pochi investimenti, nessuna innovazione, competizione al ribasso delocalizzando: il modo migliore per perdere la guerra del lavoro. I nostri giovani non ci diranno grazie.
Post scriptum - A proposito di statue e di Firenze, Bill Gates mi diceva: se avessi avuto l'archivio degli Uffizi ci avrei fatto più utile che con Windows. Era forse un paradosso, ma ricordiamocelo quando parliamo del futuro dell'occupazione in Italia: il territorio e la cultura sono una forza straordinaria per la nostra capacità di produrre e creare ricchezza.
(Fonte: www.ilsole24ore.com - 22/9/2012)
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