Nel dicembre 2008, all'incontro di fine anno dei dirigenti Fiat, Sergio Marchionne aveva detto che l'incombente crisi globale imponeva un radicale cambio di passo ai produttori d'auto e che la Fiat doveva perciò prepararsi a uscire dai suo confini. Quell'annuncio, difficile da interpretare in quel momento, venne chiarito pochi mesi dopo dalla candidatura a rilevare la Chrysler, una casa automobilistica che quasi tutti davano per spacciata e nessuno era disposto a rilevare tranne la Fiat. Tre anni dopo, al Salone dell'Automobile di Detroit dei giorni scorsi, Marchionne ha compiuto un'altra mossa, dicendo questa volta che il vero punto debole del sistema mondiale dell'auto non è più rappresentato dagli Stati Uniti, dove il mercato ha ripreso a crescere e la produzione interna è stata rilanciata, ma l'Europa. Qui c'è un mercato stagnante, attestato su livelli bassi o addirittura previsti in ulteriore regresso, come in Italia e in Spagna, dove le vendite d'auto sono destinate a scendere ulteriormente nel 2012. Per giunta, esiste un impressionante eccesso di capacità produttiva - che Marchionne indica fra il 10 e il 20% - e i prezzi dei prodotti sono tenuti così bassi da non generare una redditività sufficiente. È una situazione tale da esigere una radicale opera di riorganizzazione (che Marchionne chiama "consolidamento"), con un riduzione degli impianti e lo sviluppo di una politica di alleanze fra i produttori. Perciò la prossima tappa nella strategia della costruzione di un nuovo gruppo globale dell'auto, iniziata con la convergenza tra Fiat e Chrysler, dovrà puntare a un'intesa con una casa automobilistica europea, interessata come la Fiat a razionalizzare la propria struttura produttiva. Il nucleo importante delle dichiarazioni pronunciate da Marchionne nell'ambito del Salone di Detroit è questo, non la questione di dove sarà collocata la sede direzionale di Fiat-Chrysler, una volta che la fusione fra le due società sarà stata attuata. Chi pone questa domanda al manager italo-canadese (ricavandone sempre la medesima risposta e cioè che il problema è aperto e non può essere sciolto adesso) ragiona come se Fiat-Chrysler fosse una realtà statica, un progetto già definito in tutte le sue linee portanti. Invece non è così: il nuovo gruppo globale che Marchionne sta costruendo si sviluppa passo dopo passo e non procede secondo un disegno studiato a tavolino, ma in base alle opportunità che man mano si delineano sulla scacchiera internazionale. Il capo di Fiat-Chrysler è soprattutto un negoziatore, un abilissimo giocatore che sa trarre vantaggio dall'evolversi delle condizioni. E poi è molto attento a non scoprire mai le proprie carte fino all'ultimo, sicché si infastidisce quando gli viene richiesto di illustrare i suoi piani. Essi dipendono dal variare delle condizioni di mercato e dalla gamma di vantaggi che ciò offre; non corrispondono a un disegno organico (che sarebbe pregiudicato, del resto, dalle modeste dotazioni di cui dispone). Fiat-Chrysler non è insomma la Volkswagen, che procede con determinazione teutonica e un'eccezionale potenza di fuoco verso il traguardo che si è prefissato, il primo posto nella gerarchia mondiale delle case automobilistiche. Assomiglia piuttosto a un "work in progress", soggetto a continui adattamenti e aggiustamenti in corso d'opera. Ha di mira, certo, alcuni obiettivi di massima, ma i passaggi per poterli conseguire sono subordinati a revisioni e cambiamenti. E deve contare sulle risorse limitate che ha, giovandosi delle occasioni che si dischiudono in un sistema dell'auto in fase di rivoluzionamento incessante dal 2009 a oggi. Dunque, le sollecitazioni di varia natura che Marchionne riceve per chiarire i suoi piani non sono destinate ad avere soddisfazione. Sia perché, come si è detto, il leader di Fiat-Chrysler mette a punto (e corregge) i suoi progetti mentre li sviluppa, subordinandoli al contesto, sia perché è molto attento a lasciarsi un campo di manovra il più libero possibile. Come già in passato, Marchionne ha segnalato con sicurezza un problema cruciale nella struttura produttiva dell'industria automobilistica europea. Essa risulta sovradimensionata e gli aiuti che alcune nazioni, come la Francia, hanno erogato nei momenti più duri della crisi, se hanno avuto l'effetto di alleggerire l'emergenza, hanno però congelato impianti e occupazione. L'Europa non ha fatto come l'America di Obama, che ha concesso grandi prestiti a Detroit, ma ne ha favorito la profonda riorganizzazione. Ora i nodi stanno venendo al pettine anche su questa sponda dell'Atlantico e Marchionne è convinto che sia giunto il momento di mettere mano risolutamente alla capacità produttiva. Pensa di avere le carte in regola per compiere il primo atto, perché la Fiat è fra le poche case automobilistiche ad aver deciso di chiudere un impianto, quello di Termini Imerese. Vedremo nei prossimi mesi se Fiat-Chrysler riuscirà a configurare una nuova alleanza con un produttore europeo. Certo la strada che Marchionne indica ai produttori continentali è in salita, perché implica inevitabimente una riduzione delle fabbriche e dell'occupazione.
(Fonte: www.ilsole24.ore.com - 17/1/2012)
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