mercoledì 8 dicembre 2010
Il Lingotto a stelle e strisce. Diktat dei mercati a Marchionne
Fiat Auto esce da Confindustria e abbandona il contratto dei metalmeccanici. Sono i simboli di un'èra che si chiude. Un pezzo di storia dell'industria manifatturiera italiana giunge a una svolta. Ma ormai non è una vicenda tutta italiana, né tantomeno una partita solo sindacale. E' significativo che uno dei prossimi atti si svolga a New York: in settimana ne parleranno qui Emma Marcegaglia e Sergio Marchionne. L'ambientazione geografica è un po' casuale (si tiene qui la riunione annua del Consiglio per le relazioni Italia-Usa), tuttavia serve a sottolineare quanto il futuro di Mirafiori, Pomigliano e altri stabilimenti si giochi proprio negli Stati Uniti. In una sfida dove gli attori principali diventano l'Amministrazione Obama, Wall Street, e ancor più il sindacato metalmeccanico United Auto Workers (Uaw). Quella flessibilità che l'amministratore delegato di Chrysler-Fiat chiede ai suoi operai italiani, da lui la pretendono i mercati finanziari. Paradossalmente nella parte dell'azionista esigente c'è proprio il sindacato americano, che non può ratificare "favoritismi" o rigidità particolari nella parte italiana dell'azienda. Le scelte di Marchionne, da cui dipenderà la sopravvivenza di questo gruppo, sono comprensibili solo in questo scenario. Visto dagli Stati Uniti, e con un'attenzione alle tendenze globali del mercato dell'auto. Perché la stessa industria americana è tutt'altro che certa di poter uscire dal tunnel conservando delle dimensioni significative. In un mercato mondiale che tra il 2008 e il 2009 ha visto "scomparire" ben dieci milioni di autovetture vendute, dove la Cina ha bruciato i tempi ed è balzata di prepotenza al primo posto tra i produttori, dove un'auto europea su quattro ormai è prodotta nei paesi dell'Est (perfino i cinesi sono andati a investire in Serbia), la velocità del cambiamento dà le vertigini. Un sistema paese che non può adottare il modello cinese o indiano (perché non ha quella competitività sui costi), non riesce a inseguire il modello tedesco, dove alti salari e forte sindacalizzazione sono consentite da una straordinaria leadership tecnologica. Accadono così vicende come quella che sta agitando in queste ore la svedese Volvo: ceduta dalla Ford ai cinesi della Geely, si vede spalancare la possibilità di vendere 300.000 auto in più in Cina, ma a condizione di costruire là i prossimi tre stabilimenti. L'Amministrazione Obama per salvare pezzi importanti di industria manifatturiera ha seguito fin qui una strategia bipolare. Da una parte tenta di "fare la Germania", per esempio investendo sull'auto elettrica con General Motors (Volt) e Tesla. Dall'altra tenta di "fare un po' anche la Cina", con i sindacati costretti ad accettare per i nuovi assunti a Detroit un salario dimezzato (14 dollari l'ora), portandoli cioè allo stesso livello della manodopera non sindacalizzata degli Stati del Sud (Alabama, Mississippi) dove ci sono molte fabbriche giapponesi e tedesche. La via bipolare è complicata, siamo a metà del guado, lo stesso Obama è tutt'altro che sicuro di farcela. Chrysler-Fiat è un pezzetto di questa strategia del sistema-America. Ne subisce tutti i vincoli. Non solo perché Marchionne è un canadese-americano per cultura e formazione, ma perché precisi accordi guidano le sue prossime mosse. Fiat Auto al momento ha il 20% della Chrysler. Nel 2011 potrà ottenere "gratis" un ulteriore 15%, poi avrà l'opzione di salire fino al 51%. Il "gratis" è molto relativo, però. Occorre prima che Chrysler rimborsi interamente i debiti contratti con i governi americano e canadese all'epoca della bancarotta. Quindi servono nuovi capitali. Uno studio diffuso a Wall Street dalla Barclays indica il possibile tracciato. Marchionne negozia con le banche nuovi finanziamenti che gli consentano di ridurre gli oneri del debito (alcuni dei vecchi prestiti avevano tassi fino al 20%). Vende l'Alfa Romeo, o più probabilmente quota in Borsa la Ferrari. Qui un'ipotesi interessante è il collocamento alla Borsa di Hong Kong, la piazza finanziaria più importante per l'accesso ai capitali cinesi. Quotarsi a Hong Kong può consentire un prezzo "di favore" perché vista dall'Estremo Oriente la Ferrari verrebbe valutata più come un'impresa del settore lusso che non come una casa automobilistica. E' uno squarcio interessante su quel che resta una possibile vocazione manifatturiera italiana: nell'altissima qualità. In ogni caso, alla fine Fiat Auto raccoglierebbe i fondi necessari a diventare l'azionista di maggioranza della Chrysler. E' quello che desidera. Il noto "teorema Marchionne" era nato prima ancora della recessione, a maggior ragione lui lo sostiene adesso: in questo mondo una casa automobilistica non sopravvive sotto i sei milioni di unità prodotte all'anno. L'America gli è necessaria. Anche Obama non vede l'ora che Marchionne diventi l'azionista di controllo, vuole vendere la sua quota e ripetere così l'operazione Gm: quel collocamento in Borsa è andato bene e il governo ha potuto dimostrare al contribuente americano che il salvataggio si è concluso senza costi, addirittura con un profitto. Per reperire i nuovi finanziamenti, Marchionne deve convincere i mercati che la sua strategia è sostenibile. Ivi compresa per la parte italiana. E' qui che lo scorporo dei vari stabilimenti, la loro trasformazione in tante Newco (nuove società) "vergini", l'uscita dalla Confindustria e quindi la non applicazione del contratto nazionale metalmeccanici, diventano mosse obbligate. In questo caso i diktat dei mercati finanziari hanno una dimensione sorprendente, se vista dall'Italia. Il maggiore vincolo su Marchionne non è qualche gigante cattivo della speculazione. No, il peso massimo qui è proprio il sindacato Uaw. Che continua a detenere ad oggi il 68% delle azioni ordinarie Chrysler. E non vede l'ora di venderle, sperando anche lui di ripetere l'ottima uscita dalla Gm: in quel caso la confederazione Uaw ha incassato una plusvalenza di 2,9 miliardi di dollari. Il sindacato dei metalmeccanici americani ha accettato di fare sacrifici pesantissimi per salvare Chrysler. Oltre ai salari dimezzati per i nuovi assunti, anche pensioni e assistenza sanitaria hanno subìto tagli dolorosi. Ha perfino sottoscritto l'impegno vincolante a non fare una sola ora di sciopero fino al 2014. Questo sindacato-azionista considera impresentabile per i suoi iscritti un progetto strategico che conceda ai metalmeccanici italiani garanzie e rigidità abbandonate qui negli Usa. La via delle Newco, l'addio al contratto nazionale, sono strappi traumatici alla luce della cultura sindacale italiana, della storia del nostro movimento operaio, della nostra tradizione politica. Ma ormai la Fiat Auto è in gran parte una storia americana, le cui regole si decidono qui.
(Fonte: www.repubblica.it - 6/12/2010)
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