Sono gli uomini della squadra speciale, dislocata in un capannone poco lontano dallo stabilimento Maserati di Modena. Nelle vicinanze, ma non dentro. Votati al silenzio - hanno firmato un “confidentiality agreement”, un patto di segretezza che ha cucito le bocche col fil di ferro - sono quelli che fanno notte per preparare il rilancio dell’Alfa Romeo, sbandierato anche nei giorni scorsi al Salone dell’Auto di Ginevra da Sergio Marchionne. Sono un’ottantina, molti di loro sono ingegneri e la guida operativa è affidata al francese Philippe Krief, che risponde direttamente al tedesco Harald Wester, amministratore delegato e capo dell’area tecnica di Alfa e Maserati. Alla Maserati, del resto, già si costruisce la 4C, la supercar Alfa di grande impatto ma dai numeri piccini (se ne producono poche unità al giorno e costa 53 mila euro). Il dream team è composto da specialisti di provenienza Maserati, Fiat e Ferrari e, anche per evitare intrusioni informatiche, sono stati dotati di un apposito indirizzo mail: nome, cognome, chiocciolina e poi "arproject.com". Progetto Alfa Romeo. Il gruppo opera in stretto collegamento con VM, la fabbrica dei diesel, Comau (robot per le linee di montaggio) e Magneti Marelli (per l’elettronica). Dopo anni di melina, di promesse scritte sulla sabbia, pare dunque che adesso Marchionne sia intenzionato a puntare forte sulla rinascita dell’Alfa. Quanto forte, lo si saprà il 6 maggio a Detroit, nel Michigan, quando svelerà il piano industriale degli anni a venire. Diversi osservatori prevedono che sparerà grosso, annunciando che, a regime, l’Alfa dovrà vendere 500 mila auto l’anno. Secondo alcuni, l’amministratore delegato di Fiat Chrysler Automobiles collocherà ancora più su l’asticella, addirittura a quota 700 o 800 mila. Molto dipenderà, naturalmente, dall’orizzonte temporale che verrà dato all’operazione. E, soprattutto da quanti quattrini sarà possibile spendere per raggiungere un obiettivo così ambizioso per un brand che, numericamente parlando, è tornato all’epoca dell’autunno caldo, sotto le centomila immatricolazioni a livello mondiale. «Sono necessari almeno 4-5 miliardi di euro per dar vita a una gamma attraente e capace di fare volumi coerenti», sostiene Giacono Mori, esperto della società di consulenza AlixPartners, che aggiunge: «Se però non si fa rinascere adesso l’Alfa perderà definitivamente ogni chance». Il portafoglio prodotti della marca oggi è striminzito - tutto ricade di fatto sulle spalle della Giulietta e della Mito - e oltre alla Giulia berlina, la rompighiaccio della nouvelle vague, tra il 2015 e il 2018 dovranno esordire almeno 4 o 5 nuovi modelli. Sarà ritirato sicuramente fuori dal cassetto il Suv di cui si parla da oltre dieci anni: Marchionne, appena insediato alla guida del gruppo, pareva d’accordo nel mandare rapidamente in produzione il prototipo Kamal, svelato in pompa magna a Ginevra 2003. Poi però fece marcia indietro. E gli 85 milioni di euro spesi per lo sviluppo del progetto se ne andarono in fumo. La Giulia sarà di certo declinata anche in un altro allestimento, tuttavia non è scontato che si tratterà di una station wagon. Prima dell’estate 2013, formando il primo nucleo di pionieri dell’Alfa Project (il nome del progetto sarebbe Giorgio, secondo alcune fonti), il gran capo spiegò, chiaro e tondo, che la gamma non avrebbe dovuto essere una «minestra riscaldata all’europea, ma un’idea in grado di andare alla conquista del mondo». E le familiari, si sa, vanno forte quasi solo in Italia e in Germania. Quindi l’altra Giulia potrebbe avere le forme della coupettona. Arriveranno pure un’ammiraglia del segmento “E”, forse anche una piccola nuova di zecca per sostituire la Mito. Sulla piattaforma della Giulia, che appartiene al segmento tipico delle berline (il “D”), nel capannone modenese si sta comunque lavorando alacramente. Partendo da un’architettura Chrysler via via sempre più modificata fino a quasi diventare tutta nuova. Lo sviluppo dei nuovi pianali è fondamentale (e oneroso) ma altrettanto decisivo, forse persino di più, è il capitolo motori. Per il top di gamma si possono sfruttare i Maserati, sulla fascia bassa i Fiat, anche se Marchionne ha dichiarato di non volerne più mettere sulle Alfa. Il problemone sta nel mezzo: se si vuol davvero battagliare con Bmw o Mercedes, bisogna che l’offerta della Giulia, per esempio, sia baricentrica su propulsori di 2,5-3 litri a benzina, visto che dovrà far sfracelli in Nord America. E quel tipo di motore, l’Alfa non ce l’ha. Ci sarebbero quelli di derivazione Chrysler, ma non vanno bene per le perfomance di un’auto premium. Dice Davide Di Domenico, principal del Boston Consulting Group che segue da vicino l’industria dell’auto. «Se si vuole posizionare un marchio verso l’alto bisogna stare attenti a far condividere ai suoi modelli la piattaforma e i motori di marchi più generalisti, perché il cliente target Alfa a questi aspetti è molto attento. Probabilmente, condividere attuali e future piattaforme Maserati, e le trasmissioni 4 ruote motrici americane, sarebbe una buona sintesi». Secondo Di Domenico, il valore di un brand si articola su tre tipi di benefici che l’utente deve percepire. Eccoli: 1) cosa fa per me questo marchio? 2) come mi fa sentire quando uso una sua auto? 3) che idea si fa la gente quando mi vede al volante di quel determinato modello? «Per far sì che tutte e tre le risposte siano positive, nel caso di una vettura premium, il cliente deve accettare di pagare un prezzo superiore alla media e per farlo deve avere la percezione che ottiene, per esempio, chi compra un’Audi». Un marchio che effettivamente condivide parecchio materiale con i “colleghi” del gruppo Volkswagen, «ma che il posizionamento alto se lo crea pubblicizzando e promuovendo motori e soluzioni adottati dalla sola Audi. Per sviluppare virtuosamente questa differenza ci vogliono ingenti investimenti, costanti nel tempo». Ovviamente, non tutti quelli che acquistano un’Audi escono dalla concessionaria con le versioni più costose ed esclusive, dice in sostanza l’esperto del Boston Consulting Group, però probabilmente quasi tutti sono entrati negli show-room attratti dall’esclusività espressa dall’Audi. A proposito. «Dieci anni fa Audi aveva in listino 22 modelli, ora ne ha 44 e l’anno scorso ha venduto 1,58 milioni di vetture. Nel 2020 la casa tedesca conta di salire a 60 modelli. Per raggiungere certi volumi, insomma, sono necessari tanti prodotti. E investimenti enormi. Li può mettere sul tavolo davvero, il gruppo FCA, tutti questi soldi per resuscitare l’Alfa?», si chiede Luca Ciferri, direttore di AutomotiveNews Europe, una delle più autorevoli testate di settore. Il gap accumulato dall’Alfa nei confronti dei brand tedeschi, che filano col vento in poppa a livello mondiale, è enorme. Marchionne deciderà sul serio di far salire la marca del Biscione sul ring chiedendole di fare a cazzotti con tre colossi dalla gamma sterminata e i bilanci che scoppiano di salute? In realtà, potrebbe provare a infilarsi un po’ sotto, in quel segmento che premia il lusso abbordabile, garantito da una certa distintività. Un po’ come sta facendo la Volvo, alle cui auto si riconosce ottima qualità, pagandole meno rispetto a Audi, Bmw e Mercedes. Nel 2013, le vendite del marchio del Biscione sono rimaste sotto quota 100 mila. Non succedeva dal lontanissimo 1969. Nonostante le promesse di tutti gli ultimi manager del gruppo Fiat, che l’Alfa la possiede dal 1986, ogni tentativo di rilancio è fallito. Nonostante il target indicato da almeno tre amministraori dell’ultimo ventennio - Paolo Cantarella, Roberto Testore e lo stesso Marchionne - non apparisse così impossibile: tutti puntavano infatti alle 300 mila vetture annue; e Marchionne nel 2010 si era spinto a ipotizzarne 500 mila. Tanto per avere un’idea, l’anno scorso la Porsche di macchine ne ha vendute 162 mila. Per tonificare la casa che faceva impazzire Henry Ford (la storia del magnate americano che si toglie il cappello quando passa un’Alfa per strada è uno degli aneddoti più citati nel mondo delle quattro ruote) e tanto piace anche al capo della Volkswagen, Martin Winterkorn (che più volte ha apertamente dichiarato di volerla rilevare) però non servono denari soltanto per piattaforme e motori. Per Di Domenico del Boston Consulting Group, infatti, il rilancio richiede anche forti investimenti “soft”, cioè sulla rete di distribuzione e sul posizionamento del marchio: «E forse questo compito è ancora più difficile da portare a termine, perché si tratta di aggredire parecchi mercati in cui la presenza dell’Alfa è praticamente nulla. E anche dove la marca del Biscione c’è - in Europa - bisogna trasformarla in qualcosa di diverso rispetto all’Alfa che la gente conosce oggi». Non essere oggi presente in Cina, dove il lusso va alla grande, dice Mori di AlixPartners, «lo si potrebbe vedere anche come una grande opportunità potenziale di crescita. Però ci vogliono i soldi per la rete». Il fascino del brand, la rivincita che parte dal capannone avvolto nel mistero, le sinergie con una Maserati in forma come non capitava da tempo, la 4C Spider che ha fatto girare la testa ai visitatori del salone ginevrino. Sono tutti fatti promettenti e affascinanti. Poi, però, si finisce sempre a parlare di quattrini. Chi ha cuore lo storico marchio e l’industria automobilistica italiana (le nuove Alfa verranno dallo stabilimento di Cassino, che andrà tirato a lucido) spera che, il 6 maggio a Detroit, dopo aver svelato la gamma della nuova Alfa, Marchionne sarà convincente anche sul più prosaico fronte del denaro da mettere sul piatto.
(Fonte: http://espresso.repubblica.it - 17/3/2014)