«Fin da bambino sono stato educato alla conoscenza della materia. Mio padre, commerciante, realizzava modellini di camion per i suoi amici ed era entusiasmante vederlo lavorare manualmente. Mi ha anche sempre affascinato la multidisciplinarietà, il fatto di coinvolgere diverse competenze all’interno di un processo progettuale. Per questo ritengo importante che ogni designer abbia dentro di sé una formazione non solo tecnica, ma anche legata ad altre discipline e alla conoscenza dei materiali e del loro uso. Consiglierei a tutti i giovani designer di conoscere il pensiero e i lavori di Bruno Munari». Roberto Giolito, Responsabile del Centro Stile Fiat e Abarth ci riceve nel suo studio a Mirafiori, ricco di libri, computer e tavolette grafiche, ma anche pennarelli «lo sketch è sempre fondamentale» e fotografie appese alle pareti, che ci ricordano la grande carriera del designer di Ancona. Nato nel 1962, è designer in Fiat a cominciare dalla fine degli anni ‘80. Si distingue per l’innovazione che le sue idee e i suoi progetti portano a Torino, come la Downtown (progetto di vettura a due porte con quattro motori indipendenti montati sulle ruote). Giolito riprende il suo concetto di designer «Qui in Fiat Dante Giacosa ha dato l’avvio ad un cambiamento: il dialogo e il confronto tra designer e ingegnere. Il designer non deve essere un capriccioso ma un componente di un’orchestra, deve rispondere agli input che gli vengono imposti. Non si disegna un’auto solo con i dati di mercato, ci vogliono confronti e passi indietro». Nel 2001 il designer musicista, grande appassionato e ottimo interprete di musica jazz con il suo contrabbasso, inaugura e dirige l’Advanced Design Center «Un Team separato all’interno del Centro Stile Fiat, fatto per raccogliere giovani designer che non provenissero tutti dai centri di design più noti ma che apportassero esperienze diverse. Molte ragazze, esperti in comunicazione, marketing, design, ingegneria. Tanti di loro oggi sono affermati professionisti e grazie a quel Team sono nate molte buone idee». Nel 2004 Giolito presenta a Ginevra il prototipo della Trepiùno, purtroppo mai realizzato ma grande anticipatore di un nuovo concetto di mobilità. Proprio grazie a quell’esperienza infatti nel 2007 Giolito ridisegna l’icona della Fiat, la 500, riprendendone l’archetipo ma reinterpretandone le funzioni in chiave moderna. Nominato direttore del Centro Stile Fiat & Abarth, nel 2008 ottiene dal Presidente della Repubblica il premio Compasso d’Oro.
Ma il suo progetto più discusso e amato è senz’altro la Multipla. Esposta al MOMA di New York, ha vinto i premi “Car of the Year” (Top Gear) nel 1999 e “Family car of the year” per più anni consecutivi.
«E’ vero c’è chi non l’ha mai amata, ma resta un’auto che ha lasciato il segno. Si è arrivati al concetto rivoluzionario di Multipla per un insieme di motivi. Un gruppo di persone di differenti discipline determinate a creare un’auto estremamente abitabile in poco spazio e con costi il più possibile contenuti. C’era poi un’altra coincidenza fondamentale. In quegli anni, avendo realizzato con il Gruppo PSA il monovolume Peugeot 806 / Citroën Evasion / Fiat Ulysse / Lancia Zeta, c’era per Fiat un vincolo di non concorrenza. Non si potevano progettare auto superiori a 4 metri a 5 posti. Abbiamo dunque dovuto inventarci un’auto per sei passeggeri in 3,99 metri di lunghezza. Un altro aspetto interessante furono i costi. Grazie alla progettazione Space Frame, all’uso di estrusi in acciaio, alle avanzate tecnologie di stampa, alle lamiere tagliate al laser e poi risvoltate, alle saldature con i robot e a una linea di montaggio molto avanzata, siamo passati dai circa 600 miliardi di lire spesi per la progettazione della Punto ai circa 300 della Multipla».
Della monovolume di casa Fiat, la gente ancora oggi rimpiange lo spazio a bordo.
«Il concetto del 3+3 non era molto diffuso ma dava ai passeggeri, oltre che un senso di “salotto”, anche una grandissima libertà di movimento a bordo. Con i sei passeggeri la Multipla manteneva 500 litri di capacità di carico. Ricordo bene che partivamo da Torino per andare al Salone di Ginevra in 6 persone, viaggiando comodamente e pieni di bagagli ma nessuno si lamentava».
Ci fu anche una versione a metano della Multipla.
«Sì, era un’auto progettata fin dalla nascita per avere diverse alimentazioni. E questo è proprio l’esempio di come l’Ing. Nevio Di Giusto, allora responsabile del Centro Ricerche Fiat, riuscì ad avere ottimi risultati mettendo insieme un gruppo di competenze diverse. A questo adattamento a metano ci pensò infatti Roberto Barbiero con cui lavoravamo in sincrono. Arriva dalla Ferrari. Pensate un progettista Ferrari ha fatto lo schema del telaio per ospitare le bombole del metano (oltre al progetto della versione ibrida, ndr)».
E’ possibile oggi pensare di progettare un’auto seguendo lo stesso approccio progettuale?
«No, oggi auto così è praticamente impossibile rifarne. Il tema della standardizzazione delle piattaforme, dei processi di grande replicabilità non consentono più un simile approccio. Pensate alla 500 Living, per fare quel poco di più della 500L c’è voluta una scocca completamente nuova, un investimento molto importante per ospitare una terza fila. Se fosse stata la Multipla con il suo schema sarebbe bastato poco per adattarla. Però col metodo attuale è molto produttivo il fatto che dalla piattaforma della 500 L, small wide, nasceranno auto in tutto il mondo, dal Brasile alla Cina. Viaggiamo su una logica di economia di scala, stesso pianale, stessi attacchi sospensioni, stesse culle motore, stessi componenti, oggi vengono privilegiati questi aspetti».
Ma dovendo utilizzare per diverse auto le stesse piattaforme e gran parte dei componenti comuni, il designer non rischia di creare auto simili?
Al contrario, progetti che partono dall’uso di piattaforme e componenti identici, rappresentano delle sfide per i designer. Le stesse vetture prodotte a Melfi, da Jeep e Fiat, saranno eloquenti per capire come due prodotti nati sulla stessa piattaforma, identiche dal pianale fino ai comandi, anche agli occhi di specialisti non sembrano nemmeno assomigliarsi. Due sviluppi autonomi, uno a cui ha lavorato questo centro stile e l’altro su cui hanno lavorato a Detroit. Ormai i designer la sanno lunga sulla conoscenza dei componenti comuni e su una serie di aspetti legati alla compatibilità e alle differenze omologative e anche in questo caso sono riusciti ad avere due forme molto libere e indipendenti. Altri componenti invece sono comuni e identici, soprattutto all’interno, per risparmiare tempo. Ma in entrambi i progetti resta ben chiara l’espressione di marca».
Come sono organizzati i diversi centri stile del Gruppo FCA?
Già dal 2009, anche se solo oggi assistiamo alla fusione reale in unico Gruppo, ci definiamo con la sigla della regione: Nord America, Centro America, Emea e Apac (Asia-Pacific). Torino è certamente il centro più “tartassato” dal carico di lavoro perché lavoriamo molto anche per il Centro America (Palio, Uno). Anche Asia Pacific dipende molto da qui ma ci stiamo organizzando perché sia più autonomo. Qui a Torino c’è anche l’Ing. Lorenzo Ramaciotti, capo di tutti i design center Fiat Chrysler. Tra i vari centri c’è uno scambio continuo di scommesse e lavori. Questo anche perché oggi è necessario pensare a macchine globali. Ad esempio va ben considerata la package protection, per evitare che dei vincoli di progettazione possano impedire ad un’auto di avere successo in altri paesi al di fuori di quelli in cui è stata progettata solo per motivi omologativi. Basti citare le differenze con l’urto pedone, molto più duro qui in Europa o al crash test contro barriera che in U.S.A. è diverso e più vincolante perché prevede che i passeggeri possano non avere la cintura. Ecco perché vedete ogni tanto alcuni cruscotti molto più grandi, per allontanare il più possibile l’airbag dal conducente e dal passeggero».
Questo approccio all’auto globale vale per tutti i costruttori?
«In realtà oggi sono entrati in campo molti nuovi costruttori che continuano ad ereditare know-how e designer dalle altre Case seguendo strade poco rischiose. Mentre secondo me avrebbero l’opportunità di fare qualcosa di realmente nuovo. Dovrebbero saltare su un altro paradigma visto che hanno molto meno vincoli sia da un punto di vista di storicità che di struttura. Lo stesso approccio dovrebbe essere riservato alle auto che non utilizzano un motore endotermico».
Prima di congedarci facciamo un’ultima domanda a Giolito. Perché alcuni modelli di grandissimo successo sono comunque destinati a sparire e non hanno invece la capacità di adattarsi nel tempo?
«Gli archetipi di certi modelli di grande successo spariscono perché sono legati a delle concezioni o delle intuizioni che rappresentano dei momenti. Succede così per tutte le cose, anche per la famosa Tonet, che era la sedia più economica e popolare perché non aveva incastri ma era solo piegata. “Non c’è idea che sia capace di resistere al tempo” sosteneva Ettore Sottsass. L’automobile poi già di suo deperisce se non è conservata perfettamente. Le più longeve sono quelle che sono rimaste utili per tantissimi anni. Ad esempio la 2CV o la 500 del '57, la Land Rover, la Jeep Wrangler, la Panda dell’80. Il concetto di quelle auto è che la gente le tiene finché vanno, finché la loro funzione non viene meno a causa del cambio dei tempi. Restare su strada ne garantisce la longevità archetipale. La 500 stessa, come icona supera anche il veto delle vetture ecologiche».
Ma il suo progetto più discusso e amato è senz’altro la Multipla. Esposta al MOMA di New York, ha vinto i premi “Car of the Year” (Top Gear) nel 1999 e “Family car of the year” per più anni consecutivi.
«E’ vero c’è chi non l’ha mai amata, ma resta un’auto che ha lasciato il segno. Si è arrivati al concetto rivoluzionario di Multipla per un insieme di motivi. Un gruppo di persone di differenti discipline determinate a creare un’auto estremamente abitabile in poco spazio e con costi il più possibile contenuti. C’era poi un’altra coincidenza fondamentale. In quegli anni, avendo realizzato con il Gruppo PSA il monovolume Peugeot 806 / Citroën Evasion / Fiat Ulysse / Lancia Zeta, c’era per Fiat un vincolo di non concorrenza. Non si potevano progettare auto superiori a 4 metri a 5 posti. Abbiamo dunque dovuto inventarci un’auto per sei passeggeri in 3,99 metri di lunghezza. Un altro aspetto interessante furono i costi. Grazie alla progettazione Space Frame, all’uso di estrusi in acciaio, alle avanzate tecnologie di stampa, alle lamiere tagliate al laser e poi risvoltate, alle saldature con i robot e a una linea di montaggio molto avanzata, siamo passati dai circa 600 miliardi di lire spesi per la progettazione della Punto ai circa 300 della Multipla».
Della monovolume di casa Fiat, la gente ancora oggi rimpiange lo spazio a bordo.
«Il concetto del 3+3 non era molto diffuso ma dava ai passeggeri, oltre che un senso di “salotto”, anche una grandissima libertà di movimento a bordo. Con i sei passeggeri la Multipla manteneva 500 litri di capacità di carico. Ricordo bene che partivamo da Torino per andare al Salone di Ginevra in 6 persone, viaggiando comodamente e pieni di bagagli ma nessuno si lamentava».
Ci fu anche una versione a metano della Multipla.
«Sì, era un’auto progettata fin dalla nascita per avere diverse alimentazioni. E questo è proprio l’esempio di come l’Ing. Nevio Di Giusto, allora responsabile del Centro Ricerche Fiat, riuscì ad avere ottimi risultati mettendo insieme un gruppo di competenze diverse. A questo adattamento a metano ci pensò infatti Roberto Barbiero con cui lavoravamo in sincrono. Arriva dalla Ferrari. Pensate un progettista Ferrari ha fatto lo schema del telaio per ospitare le bombole del metano (oltre al progetto della versione ibrida, ndr)».
E’ possibile oggi pensare di progettare un’auto seguendo lo stesso approccio progettuale?
«No, oggi auto così è praticamente impossibile rifarne. Il tema della standardizzazione delle piattaforme, dei processi di grande replicabilità non consentono più un simile approccio. Pensate alla 500 Living, per fare quel poco di più della 500L c’è voluta una scocca completamente nuova, un investimento molto importante per ospitare una terza fila. Se fosse stata la Multipla con il suo schema sarebbe bastato poco per adattarla. Però col metodo attuale è molto produttivo il fatto che dalla piattaforma della 500 L, small wide, nasceranno auto in tutto il mondo, dal Brasile alla Cina. Viaggiamo su una logica di economia di scala, stesso pianale, stessi attacchi sospensioni, stesse culle motore, stessi componenti, oggi vengono privilegiati questi aspetti».
Ma dovendo utilizzare per diverse auto le stesse piattaforme e gran parte dei componenti comuni, il designer non rischia di creare auto simili?
Al contrario, progetti che partono dall’uso di piattaforme e componenti identici, rappresentano delle sfide per i designer. Le stesse vetture prodotte a Melfi, da Jeep e Fiat, saranno eloquenti per capire come due prodotti nati sulla stessa piattaforma, identiche dal pianale fino ai comandi, anche agli occhi di specialisti non sembrano nemmeno assomigliarsi. Due sviluppi autonomi, uno a cui ha lavorato questo centro stile e l’altro su cui hanno lavorato a Detroit. Ormai i designer la sanno lunga sulla conoscenza dei componenti comuni e su una serie di aspetti legati alla compatibilità e alle differenze omologative e anche in questo caso sono riusciti ad avere due forme molto libere e indipendenti. Altri componenti invece sono comuni e identici, soprattutto all’interno, per risparmiare tempo. Ma in entrambi i progetti resta ben chiara l’espressione di marca».
Come sono organizzati i diversi centri stile del Gruppo FCA?
Già dal 2009, anche se solo oggi assistiamo alla fusione reale in unico Gruppo, ci definiamo con la sigla della regione: Nord America, Centro America, Emea e Apac (Asia-Pacific). Torino è certamente il centro più “tartassato” dal carico di lavoro perché lavoriamo molto anche per il Centro America (Palio, Uno). Anche Asia Pacific dipende molto da qui ma ci stiamo organizzando perché sia più autonomo. Qui a Torino c’è anche l’Ing. Lorenzo Ramaciotti, capo di tutti i design center Fiat Chrysler. Tra i vari centri c’è uno scambio continuo di scommesse e lavori. Questo anche perché oggi è necessario pensare a macchine globali. Ad esempio va ben considerata la package protection, per evitare che dei vincoli di progettazione possano impedire ad un’auto di avere successo in altri paesi al di fuori di quelli in cui è stata progettata solo per motivi omologativi. Basti citare le differenze con l’urto pedone, molto più duro qui in Europa o al crash test contro barriera che in U.S.A. è diverso e più vincolante perché prevede che i passeggeri possano non avere la cintura. Ecco perché vedete ogni tanto alcuni cruscotti molto più grandi, per allontanare il più possibile l’airbag dal conducente e dal passeggero».
Questo approccio all’auto globale vale per tutti i costruttori?
«In realtà oggi sono entrati in campo molti nuovi costruttori che continuano ad ereditare know-how e designer dalle altre Case seguendo strade poco rischiose. Mentre secondo me avrebbero l’opportunità di fare qualcosa di realmente nuovo. Dovrebbero saltare su un altro paradigma visto che hanno molto meno vincoli sia da un punto di vista di storicità che di struttura. Lo stesso approccio dovrebbe essere riservato alle auto che non utilizzano un motore endotermico».
Prima di congedarci facciamo un’ultima domanda a Giolito. Perché alcuni modelli di grandissimo successo sono comunque destinati a sparire e non hanno invece la capacità di adattarsi nel tempo?
«Gli archetipi di certi modelli di grande successo spariscono perché sono legati a delle concezioni o delle intuizioni che rappresentano dei momenti. Succede così per tutte le cose, anche per la famosa Tonet, che era la sedia più economica e popolare perché non aveva incastri ma era solo piegata. “Non c’è idea che sia capace di resistere al tempo” sosteneva Ettore Sottsass. L’automobile poi già di suo deperisce se non è conservata perfettamente. Le più longeve sono quelle che sono rimaste utili per tantissimi anni. Ad esempio la 2CV o la 500 del '57, la Land Rover, la Jeep Wrangler, la Panda dell’80. Il concetto di quelle auto è che la gente le tiene finché vanno, finché la loro funzione non viene meno a causa del cambio dei tempi. Restare su strada ne garantisce la longevità archetipale. La 500 stessa, come icona supera anche il veto delle vetture ecologiche».
(Fonte: www.automoto.it - 18/3/2014)
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