“Lasciamo parlare il mercato...”. Sergio Marchionne ama giocare d’attacco. Il sindacato americano valuta in “almeno 5 miliardi di dollari” il 41,5 per cento di Chrysler in suo possesso? “Io considero questa valutazione eccessiva, anzi abnorme – ha detto al Financial Times il capo di Fiat-Chrysler – Il mercato ce lo dirà”. Lo dirà presto perché questa settimana “saremo in grado di depositare tutti i documenti per la quotazione a Wall Street”. Salvo colpi di scena, l’offerta di azioni avverrà entro l’anno. La United Auto Workers (UAW) fa sapere che non offrirà più di un quinto dello stock a sua disposizione: l’obiettivo non è far cassa ma segnare un prezzo, il più alto possibile. Fiat, che ha il 58 per cento (più un’opzione sul 16), giocherà le sue carte con un duplice obiettivo: evitare rialzi speculativi, ma anche non compromettere l’acquisizione di almeno i tre quarti delle azioni, il minimo per unificare la cassa di Chrysler con quella di Fiat. Una partita difficile che Marchionne ha cercato di scongiurare fino all’ultimo. Ma se i sindacalisti di Detroit vogliono la lotteria, si facciano sotto. A meno che alla fine non approdino a più miti consigli. Difficile però che si tiri indietro Erickson Perkins, un veterano di Wall Street che l’UAW ha voluto nel consiglio di Chrysler proprio per trattare il prezzo delle azioni con Marchionne. Tutt’altra pasta rispetto a chi l’aveva preceduto: l’ex governatore del Michigan, James Blanchard, cui brillavano gli occhi ogni volta che Marchionne annunciava nuove tappe della resurrezione di Chrysler. Perkins non nutre di questi timori reverenziali: la sua unica preoccupazione sembra quella di non fare sconti. Del resto, la sua “conversione” al sindacato risale al 1999 sull’onda dell’emozione “per le privatizzazioni nell’ex Unione sovietica, un furto a favore degli oligarchi”: “Solo un forte e informato movimento dei lavoratori per scongiurare rapine del genere”, sostiene. Per carità, né l’Uaw né Perkins giudicano Marchionne alla stregua di un oligarca. Ma nemmeno un compagno di viaggio con cui scambiare abbracci e pacche sulle spalle, com’era all’inizio. Da allora, a dividere Marchionne dalla squadra di Bob King, il leader sindacale che ha preso il posto del mitico Ron Gettelfinger, ci sono state trattative dure. C’è però un nuovo idillio, quello con Volkswagen, che sta aprendo a Chattanooga nel Tennessee, uno degli stati in cui il sindacato non ha mai potuto mettere piede. Almeno finora, perché il gruppo tedesco ha aperto le porte all’Uaw che ha raccolto l’offerta senza farsi pregare. “Per il sindacato americano – dice Giuseppe Berta, storico dell’economia e dell’auto – è necessario sfondare fuori dal Michigan. Ormai buona parte delle auto U.S.A. vengono fabbricate in stati ove non è permessa la presenza del sindacato. La breccia di Chattanooga è importante”. Meglio il modello tedesco di cogestione, insomma? “Non credo che c’entri molto. E’ un puro calcolo di convenienza, così come solo il soldo è alla base del braccio di ferro con Marchionne. Una sfida del genere sembra fatta apposta per piacere agli americani”. Insomma, in America il mito Marchionne resiste. Ma nei fatti il quadro è meno idilliaco di quel che poteva apparire solo pochi mesi fa: la prospettiva di un’Ipo rischia di allontanare non solo la fusione tra Fiat e Chrysler (e la successiva quotazione a Wall Street), ma incide anche sui piani d’integrazione. Così Marchionne estrae dal mazzo una carta nuova: il glamour del Made in Italy. A leggere l’intervista al Ft di ieri si stenta a credere che si tratti dello stesso Marchionne che sosteneva che “in Italia è impossibile lavorare”. Prima assicura che tutti i dipendenti di Mirafiori in cassa integrazione rientreranno al lavoro, poi, parlando di Maserati e Alfa, dice: “Non costruiremo mai queste vetture fuori dall’Italia”. In realtà, queste parole non aggiungono nulla di nuovo ai piani già noti, ma servono a ricordare che al matrimonio Fiat può portare in dote una Ferrari, non una sovietica Zhigulì vecchio stampo, come teme mister Perkins.
(Fonte: www.ilfoglio.it - 17/9/2013)
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