Se avesse scelto di restare a Taranto, dove è nato il 2 agosto 1963, Alfredo Altavilla oggi sarebbe probabilmente un manager dell’Ilva. Gli è andata bene, anche se vedersela col mercato europeo dell’auto, allargato a quelli del Medio Oriente e dell’Africa, non è poi un gioco da ragazzi. Ma lui sa che non c’è nulla di eterno su questa terra, neppure la crisi economica. Ha la pazienza e la tenacia dei negoziatori e perciò è convinto che se ne verrà fuori. «Questa volta è più dura, più lunga, più dolorosa di altre ma se ne uscirà, si tratta di vedere quale sarà il prezzo a livello di Paese, consumatori, aziende». Nel suo nuovo ruolo di numero uno per l’Europa (nonché per l’intera area Emea) di Fiat S.p.A., la carica che Sergio Marchionne gli ha assegnato la settimana scorsa, Altavilla deve fare in modo che questo prezzo non sia alto per il Lingotto. Impresa difficile? «Fa parte del gioco - risponde lui - è il bello e il brutto del mestiere che mi sono scelto». Se avesse inseguito il successo facile sarebbe andato a lavorare per un’azienda di telefonini o di moda. «Invece amo le sfide difficili», ammette con un sorriso sornione stampato su un viso di ragazzo cresciuto troppo e in fretta che, ormai sulla soglia dei cinquanta, somiglia ancora a un giocatore di football di un college americano. Con Sergio Marchionne è presto accontentato, perché di sfide se ne troverà davanti quante ne vuole. Ma i due s’intendono bene, forse perché per alcuni aspetti sembrano fatti della stessa pasta. E non soltanto perché provengono da quella provincia italiana che allena alla durezza, non prevede le mezze misure, non ti regala niente, o ci sai o non ci sai fare. Come Marchionne si identifica col lavoro per il quale è anche pronto a rinunce e sacrifici, insegue il risultato e fa di tutto per conseguirlo, si sente cittadino del mondo per qualcosa che ha a che fare non tanto con la missione politica, religiosa, culturale ma con la nuova dimensione e le nuove caratteristiche dell’economia. Insomma fa parte di quell’antropologia manageriale figlia della globalizzazione, quella chiesa di officianti che partecipano a giorni alterni a board che si riuniscono negli angoli più diversi e tra loro lontani, parlano lingue diverse e tutte accomunate dall’inglese dei computer, degli iPod, degli iPhone, dei tablet e di altre diavolerie del genere. Altavilla sta perfettamente in questo format di "homo novus" di una Fiat che di quella che ha visto tramontare il Novecento non ha più nulla, salvo la proprietà. Una settimana fa ha aggiunto ai suoi incarichi quello di Chief Operating Officer della regione EMEA, sigla che sta appunto per Europa, Africa, Medio Oriente, mantenendo la responsabilità del coordinamento del business e development del gruppo e quello di membro del Group Executive Council di cui fa parte dal primo settembre 2011. Ha preso il posto di Gianni Coda, che ha lasciato la Fiat dopo 33 anni. Coda era “l’ultimo dei moicani”, per dire il solo superstite dell’altra Fiat da quando è uscito Paolo Monferino che, dopo una vita passata nelle diverse province del Lingotto, è andato a guastarsi l’età della pensione facendo l’assessore alla sanità di un Piemonte governato dal leghista Roberto Cota. A dispetto delle date, Altavilla fa parte della nuova generazione di manager approdati al Lingotto, qualcuno dice, di quelli che hanno resistito ai ritmi di Marchionne. Questione di carattere, forse anche di idee chiare su ciò che si deve fare oggi e di ciò che si può fare domani. Il suo capolavoro per la promozione finale lo confeziona ai tempi dell’operazione Chrysler. Chi ha seguito quella partita sa che non è stato facile. Dopotutto si trattava di stabilire se si voleva comprare o no e, naturalmente, come farlo. Lui stava tra quelli che erano convinti che si dovesse comprare e gli è toccato occuparsi del come farlo, trasformandosi in una specie di ombra di Marchionne. Aveva maturato questa convinzione perché aveva capito che l’altra Fiat non esisteva più. «Non c’era più la Fiat “italo-centrica” e “torino-centrica” e ci si doveva mettere in sintonia con un mondo dell’industria che era cambiato», spiega. E in questo mondo era cambiato anche il ruolo del manager la cui scelta non rispondeva più a criteri stravaganti tra i quali anche quello politico ma doveva essere esclusivamente meritocratica. «Se vali, bene. Se no a casa». E’ quello che lui pensa. Selezione spietata che, secondo alcuni, è costata a Marchionne un turnover di manager piuttosto spinto e pericoloso. Cosa di cui Altavilla non sembra convinto. Per lui Marchionne si è comportato né più né meno che come tutti i capi azienda che ci tengono a fare bene il loro mestiere. E non ha difficoltà ad ammettere che forse a Torino non erano abituati all’idea che se uno non porta i risultati che deve portare non può essere parcheggiato nel cimitero degli elefanti di qualche posto di comodo ma deve cambiare aria. Se poi c’è altro, Altavilla lo considera secondario in un panorama globale dell’industria radicalmente mutato. «In America e in altri paesi evoluti questo non succede». Lui lo sa per aver frequentato questo mondo che ha trovato tanto interessante da buttarsi dentro anima e corpo. E questo spiega perché nel suo quotidiano non ci sia molto spazio per qualcosa che non siano auto e moto. Lui lo ammette e non ne fa un problema. «Vita di società zero», confessa. E del resto per uno che passa metà del suo tempo in giro per il mondo non potrebbe essere diversamente. Ma lui riesce a vedere il bicchiere mezzo pieno: «Il rapporto con altra gente sparsa nel mondo, le difficoltà di rapportarsi con persone che pensano e agiscono diversamente, ti arricchisce culturalmente. Perciò non mi lamento, anzi questa vita mi piace». Lo dice con naturalezza, senza enfasi e anche questo fa parte del suo carattere. Se lo si conosce da vicino si scopre infatti che Altavilla è un uomo che non è affatto incline a ragionamenti obliqui. E’ leale e diretto. Come quando parla di quel Sud dove sono le sue radici. «Mi piace tornare ogni tanto, da mia madre e mio fratello, mi piace ritrovare la mia terra, ma dopo qualche giorno comincia a salirmi una rabbia da dentro perché vedo che lì tutto continua a restare come prima, che non cambia nulla in un posto che ha tanto bisogno di cambiare». Un paio d’anni fa, quando Marchionne lasciò intendere che nel 2015 avrebbe potuto lasciare il bastone di comando della Fiat per una meritata seppure non inattiva pensione, nel gioco del totocandidato alla successione entrò anche il nome di Altavilla. Poi non se ne parlò più. Le vicende della Fiat, che ancora occupano le pagine dei giornali, fecero dimenticare la storia di quell’avvicendamento che finì come spostato in avanti, in un futuro che ancora oggi risulta difficile misurare. Né lui, da allora in poi, ha fatto una mossa o ha pronunciato una parola che abbiano potuto incoraggiare una vaga idea che quell’indiscrezione potesse essere altro che un’indiscrezione. Nella tessitura delle alleanze che Fiat-Chrysler non hanno ancora completato lui si accontenta di essere un aiuto regista.
(Fonte: www.repubblica.it - 19/11/2012)
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