Una guerra simulata, come avviene ogni giorno al cambio della guardia alla frontiera tra India e Pakistan. Così si è, per il momento, archiviato il primo round tra la professoressa Fornero, ministro del Lavoro del governo Monti, e i sindacati ricompattati in difesa dell'articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. Tutti sanno che il discorso non è chiuso, e il decisionismo mostrato dalla Fiat di Marchionne non può non rappresentare un esempio della possibilità di cambiare le regole nel campo del lavoro. La multinazionale simbolo dell'Italia, che chiude tre stabilimenti, esce da Confindustria, rifiuta il contratto collettivo per stipularne uno aziendale solo con i sindacati che ci stanno, e detta, di fatto, l'agenda a tutto il Paese. Ma per cercare di comprendere quello che sta avvenendo, bisogna saper acquisire una visione a livello planetario. Incontriamo perciò Antonio Ferigo, un sindacalista dei metalmeccanici della Cisl, per lungo tempo tra i responsabili della Federazione Internazionale Sindacati Metalmeccanici, con sede a Ginevra. Una lunga militanza cominciata negli stabilimenti torinesi della Fiat di Rivalta e dell'Iveco e ora tra gli animatori del gruppo di lavoro "Sindacalmente", che mantiene vivo il dibattito oltre le sponde delle sigle restando fedele, citando Eraldo Crea, a quella «attitudine che matura nel profondo della coscienza di ciascuno, che si alimenta della capacità quotidiana di rivivere, soffrire, ed interpretare la condizione operaia».
Come si può leggere la posizione della Fiat a livello di strategia di competizione internazionale?
«Tra i produttori generalisti la Fiat è la meno internazionalizzata. Ben sistemata in America Latina, dove fa profitti in Brasile, è invece arretrata rispetto alle concorrenti in Cina e in tutta l'Asia. Del tutto assente in Africa. In Europa le difficoltà sono evidenti: basta guardare i dati di mercato, in costante discesa. Naturalmente bisogna tenere conto ormai di Chrysler, presente negli U.S.A. e Canada. E' ancora presto per dire quanto i marchi Fiat e Alfa potranno aver successo nel mercato nord americano. La Cinquecento lanciata negli U.S.A. è ben al di sotto degli obiettivi annunciati e per l'Alfa non è ancor chiaro quando e se sia previsto davvero un ritorno in Nord America. Fiat-Chrysler ha quindi bisogno per il futuro di "recuperare" in Europa, in particolare in Italia, e di crescere sui mercati emergenti del cosiddetto BRIC (Brasile, Russia, India e Cina)».
Ma in che maniera?
Come si può leggere la posizione della Fiat a livello di strategia di competizione internazionale?
«Tra i produttori generalisti la Fiat è la meno internazionalizzata. Ben sistemata in America Latina, dove fa profitti in Brasile, è invece arretrata rispetto alle concorrenti in Cina e in tutta l'Asia. Del tutto assente in Africa. In Europa le difficoltà sono evidenti: basta guardare i dati di mercato, in costante discesa. Naturalmente bisogna tenere conto ormai di Chrysler, presente negli U.S.A. e Canada. E' ancora presto per dire quanto i marchi Fiat e Alfa potranno aver successo nel mercato nord americano. La Cinquecento lanciata negli U.S.A. è ben al di sotto degli obiettivi annunciati e per l'Alfa non è ancor chiaro quando e se sia previsto davvero un ritorno in Nord America. Fiat-Chrysler ha quindi bisogno per il futuro di "recuperare" in Europa, in particolare in Italia, e di crescere sui mercati emergenti del cosiddetto BRIC (Brasile, Russia, India e Cina)».
Ma in che maniera?
«Il punto forte di Fiat, secondo l'opinione diffusa, sono le vetture di bassa gamma (come Panda, Punto e Cinquecento). Nella fascia alta le distanze con i concorrenti sono abissali. E' probabile che l'azienda persegua una strategia simile a quella internazionale. Tenere in Italia e tentare di crescere in Europa con altri modelli medio-alti. Dal momento che il valore aggiunto delle vetture piccole è molto ridotto ne deriva, a mio parere, l'enfasi quasi improvvisa sull'efficienza e controllo degli stabilimenti italiani posti in concorrenza mediatica con Serbia e Polonia. Ma sarebbe da chiedersi: è un'enfasi giustificata? Davvero gli investimenti in Italia sono posti in pericolo dal sistema di relazioni industriale del nostro Paese e dalla mancanza di garanzie? Oppure la "svolta" di Marchionne si spiega altrimenti?»
Infatti, è la domanda da cui siamo partiti: quale strategia?
«Credo che l'amministratore delegato Fiat-Chrysler stia perseguendo due obiettivi. Il primo è di immagine di se stesso e dell'azienda. Fiat e Chrysler sono aziende miracolate, salvate dal fallimento e con un futuro non più incerto. E' quanto ripete nel suo continuo muoversi tra le due sponde dell'Atlantico, adattando il linguaggio alle situazioni e facendo parlare di se sui giornali. Come la recente proposta di avere un sistema salariale unico alla Chrysler (adesso vi sono due livelli molto differenziati), improponibile per il sindacato, sono esempi di strategia d'immagine. A mio parere lo è anche il disegno di cambiamento delle relazioni sindacali in Italia, Pomigliano, Mirafiori e l'uscita dalla Confindustria. Il messaggio che deve arrivare è che il governo dell'azienda è saldo e "tosto", come si dice in America, e quindi non fa parte del caos Italia. Questa l'idea largamente diffusa all'estero. Il secondo obiettivo è prendere tempo. Il settore è in continuo cambiamento. In U.S.A. i mercati dell'auto sono in ripresa, in Brasile vi sono segnali di crisi, l'Europa è preoccupante (PSA e Renault hanno ridotto le produzioni e PSA minaccia licenziamenti). Non è detto che di qui al 2013 gli obiettivi produttivi per Mirafiori non cambino nuovamente. Nel frattempo tanta cassa integrazione.
«Credo che l'amministratore delegato Fiat-Chrysler stia perseguendo due obiettivi. Il primo è di immagine di se stesso e dell'azienda. Fiat e Chrysler sono aziende miracolate, salvate dal fallimento e con un futuro non più incerto. E' quanto ripete nel suo continuo muoversi tra le due sponde dell'Atlantico, adattando il linguaggio alle situazioni e facendo parlare di se sui giornali. Come la recente proposta di avere un sistema salariale unico alla Chrysler (adesso vi sono due livelli molto differenziati), improponibile per il sindacato, sono esempi di strategia d'immagine. A mio parere lo è anche il disegno di cambiamento delle relazioni sindacali in Italia, Pomigliano, Mirafiori e l'uscita dalla Confindustria. Il messaggio che deve arrivare è che il governo dell'azienda è saldo e "tosto", come si dice in America, e quindi non fa parte del caos Italia. Questa l'idea largamente diffusa all'estero. Il secondo obiettivo è prendere tempo. Il settore è in continuo cambiamento. In U.S.A. i mercati dell'auto sono in ripresa, in Brasile vi sono segnali di crisi, l'Europa è preoccupante (PSA e Renault hanno ridotto le produzioni e PSA minaccia licenziamenti). Non è detto che di qui al 2013 gli obiettivi produttivi per Mirafiori non cambino nuovamente. Nel frattempo tanta cassa integrazione.
Esiste davvero una strategia possibile per i lavoratori oltre il livello nazionale? Oppure il destino è quello di una battaglia di retroguardia e di riduzione del danno davanti alla libera movimentazione di merci e capitali come le delocalizzazioni dimostrano?
«Siamo nel bel mezzo di una nuova "grande trasformazione", non mi pare di vedere grandi analisi con conseguenti discussioni sul che fare. Significativo che tornino ad interessare Marx o Schumpeter. Bisogna, infatti, porsi le domande giuste: se il settore dei servizi è destinato a crescere e decentrarsi nei paesi emergenti, quale iniziativa sindacale è richiesta? Con quali strumenti e obiettivi? Se è necessario non solo il coinvolgimento ma la partecipazione del lavoratore nei nuovi modelli organizzativi basta dire entriamo (senza riuscirci) nei consigli di amministrazione? Se occorre una ristrutturazione, perché, inevitabilmente certe produzioni se ne vanno in Asia o Africa, con che cosa le sostituiamo? Necessitano politiche internazionali che diventino parte integrante della normale e necessaria attività del sindacato e della politica. Pensiamo ai diritti umani. Oggi ancora non è così. Vi sono responsabili pieni di zelo e sovraccarichi di impegni ma spesso lasciati a se stessi e con poche risorse. Ma questa è la direzione da seguire in questa nuova fase».
«Siamo nel bel mezzo di una nuova "grande trasformazione", non mi pare di vedere grandi analisi con conseguenti discussioni sul che fare. Significativo che tornino ad interessare Marx o Schumpeter. Bisogna, infatti, porsi le domande giuste: se il settore dei servizi è destinato a crescere e decentrarsi nei paesi emergenti, quale iniziativa sindacale è richiesta? Con quali strumenti e obiettivi? Se è necessario non solo il coinvolgimento ma la partecipazione del lavoratore nei nuovi modelli organizzativi basta dire entriamo (senza riuscirci) nei consigli di amministrazione? Se occorre una ristrutturazione, perché, inevitabilmente certe produzioni se ne vanno in Asia o Africa, con che cosa le sostituiamo? Necessitano politiche internazionali che diventino parte integrante della normale e necessaria attività del sindacato e della politica. Pensiamo ai diritti umani. Oggi ancora non è così. Vi sono responsabili pieni di zelo e sovraccarichi di impegni ma spesso lasciati a se stessi e con poche risorse. Ma questa è la direzione da seguire in questa nuova fase».
(Fonte: www.cittanuova.it - 28/12/2011)
Non mi sembra che l'aria di Ginevra aiuti a dare valore aggiunto o spunti innovativi alle proposte sindacali in Italia. E non c'è da meravigliarsi perché "più ci si allontana dalla responsabilità gestionale più si gira a vuoto".
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