sabato 2 luglio 2011

Fiat-Chrysler: dall'intesa al controllo, una corsa durata due anni


Ventisette mesi per rianimare, rilanciare e infine conquistare la terza casa automobilistica americana. Una lunga cavalcata, vissuta su e giù tra due continenti per scrivere una delle avventure industriali più straordinarie degli ultimi anni. All’inferno e ritorno in poco più di ottocento giorni. Il tutto ad opera di un manager partito ragazzino da Chieti in Abruzzo, formatosi in Canada e negli Stati Uniti, «trovato» in Svizzera e approdato a Torino per salvare la Fiat. Sergio Marchionne, l’uomo dal maglioncino nero, ha potuto annunciare ieri che il Lingotto sale al 52% di Chrysler, acquisendo così la maggioranza della casa U.S.A. . Le date sono importanti per comprendere questa storia, per capire quanto contino la capacità di comprensione e la rapidità di azione e reazione. Nel 2005 la General Motors era la più grande industria automobilistica del mondo, e guardava con malcelata insofferenza a una Fiat claudicante che tentava di risollevarsi sotto la spinta di un "parvenu" delle quattro ruote un po’ filosofo, un po’ commercialista e un po’ avvocato. Certo un negoziatore eccezionale, che convince l’arrogante ceo di Gm Richard Wagoner, interessato più alla sua partita di golf che alla trattativa, a sborsare 2 miliardi di dollari per non acquistare Fiat Auto. Quattro anni dopo Gm è fallita, così come la più piccola Chrysler. «Questo dice molto su quanto il successo sia temporaneo e fugace - commenterà Marchionne il 7 aprile scorso a Bologna -. Non esiste un successo che sia definitivo, devi guadagnarlo giorno per giorno». Il 2008 esplode lo tsunami dei subprime e l’economia mondiale va in tilt. Le case automobilistiche di tutto il mondo scoprono la crisi, quelle americane sembrano destinate a precipitare in un baratro senza fondo. Il 15 aprile le indiscrezioni che parlano di trattative fra la più piccola delle tre sorelle di Detroit e la Fiat che la cura Marchionne aveva rilanciato. L’ad del Lingotto vede nella casa U.S.A. l’opportunità per far compiere alla Fiat il salto dimensionale indispensabile a competere sullo scacchiere internazionale che uscirà dalla catarsi della crisi. L’obiettivo è arrivare a una capacità di 5,5-6 milioni di auto l’anno. Una "mission impossible", circondata dallo scetticismo generale. Il 31 dicembre dello stesso anno il Financial Times scriverà che sarebbero sopravvissuti alla crisi solo due costruttori americani «e la vittima sarà Chrysler». Il 20 gennaio 2009 è, invece, l’inizio ufficiale della storia. Viene firmato l’accordo preliminare fra Detroit e Torino: prevede che Fiat rilevi subito il 20% di Chrysler e in 3 fasi successive un altro 15% senza investimenti in contanti, ma trasferendo tecnologie e capacità manageriali. Avranno quote azionarie sia il Tesoro U.S.A. che il governo del Canada che garantiranno quasi 8 miliardi di dollari di finanziamenti, mentre il fondo pensioni Veba del sindacato auto Uaw si accollerà il 55% delle quote. La trattativa è durissima, più volte si sfiora la rottura perché i lavoratori devono accettare pesanti condizioni. Ma l’alternativa semplicemente non esiste e, uno dopo l’altro, i tasselli vanno a posto. Il 30 aprile il sindacato Uaw ratifica l’accordo ed è lo stesso presidente U.S.A., Barack Obama, ad annunciare l’intesa. E usa parole assai lusinghiere sulla Fiat e su “Serghio” Marchionne. Uno spot inaspettato e inedito per l’azienda Italia. Dirà l’ad del Lingotto: «La task force del presidente Obama non si è posta solo l’obiettivo di salvare l’industria dell’auto, ma di rifondarla su basi più sane. Non solo finanziariamente, ma anche dal punto di vista ecologico e di sostenibilità. Quello che possiamo testimoniare è la straordinaria determinazione dei governi americano e canadese e il profondo senso di responsabilità di tutti. Ognuno ha fatto la sua parte di sacrifici». Da lì in avanti Marchionne (che il 10 giugno è diventato anche ad di Chrysler) e i suoi procedono a passo di carica. La stampa U.S.A. si accorge del fenomeno e inizia a parlare di “cura Marchionne”. Il 4 novembre 2009 arriva il piano industriale. Si lavora duro nel Michigan, con i sindacati che sposano la “cura” e garantiscono la pace. Il 21 aprile 2010 a Detroit annunciano che il primo trimestre chiude con un utile operativo di 143 milioni di dollari e un flusso di cassa positivo per 1.490 milioni, mentre le perdite si attestano a 197 milioni e i ricavi crescono del 3%. Funziona. Ma la data simbolo è il mese dopo, il 21 maggio: Chrysler lancia la nuova Jeep Grand Cherokee, la prima vettura che porta la firma del Lingotto. Ha detto ancora recentemente, con visibile orgoglio, Marchionne: «Siamo riusciti a presentare 16 nuovi modelli in soli 19 mesi, rinnovando il 75% della gammma. E la cosa straordinaria è che nel 2011 la Chrysler, a livello operativo, guadagnerà più della Fiat». Il 30 luglio la storica visita di Obama allo stabilimento di Jefferson North, proprio quello della Jeep. E il 6 febbraio di quest’anno l’eccezionale spot di Eminem trasmesso durante il Super Bowl: 2 minuti visti da 111 milioni di spettatori e visitato su YouTube da 10 milioni di persone in pochi giorni. Il resto è cronaca recente, in una sorta di corsa contro il tempo di Marchionne. Il raggiungimento della soglia del 25 e poi del 30%. Quindi l’«independence day» del 24 maggio di quest’anno, con la restituzione ai governi americano e canadese di 7,6 miliardi di dollari di prestiti e l’ascesa di Fiat al 46% del capitale, con tanto di plauso pubblico da parte di Obama. Sino all’annuncio di ieri sul 52%, già pronto a diventare 57%. Ma Marchionne, la Fiat e il suo presidente John Elkann già guardano oltre: una sempre più stretta integrazione («anche culturale, che ha un valore inestimabile dal punto di vista umano», ha detto Marchionne) fra Torino e Detroit; poi la quotazione di Chrysler per consentire a Veba di monetizzare per finanziare la previdenza. E, infine, la fusione.
(Fonte: www.lastampa.it - 28/5/2011)

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