mercoledì 26 gennaio 2011

Freemont/Journey, Lancia/Chrysler: storia del “badge engineering”, il gioco dei marchi


Le sinergie tra Lancia e Chrysler, di cui si fa un gran parlare da qualche mese, hanno posto all'attenzione di molti la questione del valore del brand. In questa sede ci asterremo da un'analisi delle scelte strategiche in casa Fiat-Chrysler (se ne dice già troppo), concentrandoci sullo sviluppo di questa particolare tecnica produttivo-commerciale, ricordandone i casi più eclatanti.
LA NASCITA - Tutto iniziò negli U.S.A., patria della catena di montaggio e dell'automobilismo “pragmatico” per eccellenza. In terra americana, negli anni '20 del Novecento, la Nash Motor Company proprose sul mercato la “Light Six”, un modello già prodotto con marchio Ajax, senza variazioni evidenti, se non la sostituzione dei loghi Ajax con il marchio Nash. L'episodio, che pare legato ad un improvviso guizzo di orgoglio di Charles Warren Nash in persona, ha dato il “La” ad una delle più abusate tecniche dell'automobilismo di massa: il "badge engineering". Un'arma a doppio taglio che negli anni ha mietuto vittime illustri che, con il Secondo dopoguerra, con la diversificazione dei mercati ai due lati dell'Atlantico e con la motorizzazione di massa nel Vecchio Continente, fu definitivamente sdoganata in campo internazionale. Prescindendo da casi sporadici, possiamo senza ombra di dubbio definire l'inglese BMC come il primo, grande, gruppo automobilistico ad aver applicato su larga scala i concetti del badge engineering. Seppur ormai lontani negli anni, resta ben impresso nella mente di ogni appassionato la “danza” di marchi con cui era proposto un prodotto di grande serie come la MINI. Al debutto, nel 1959, la piccola utilitaria d'Oltremanica era proposta con i marchi Austin, Morris e successivamente in Italia, Innocenti (rispettivamente con il nome di “Seven” e “Mini Minor”), gemelle, che differenziavano essenzialmente per il grado di finitura. Ma prima della declinazione italiana, già nel 1961, a queste versioni originarie si affiancarono altre due “gemelle” con i marchi Riley e Wolseley. Questa nuova coppia, con un terzo sgradevolissimo volume applicato in coda - ed un frontale più elaborato – venne proposta con i nomi rispettivi di Elf e Hornet. Sulle vicissitudini della BMC (poi British Leyland e, quindi, Rover Group), e sull'uso esteso e spregiudicato che questa fece del badge engineering, ci siamo soffermati più volte. L'intera gamma del colosso inglese, fino agli anni Ottanta, si basava su pochi modelli declinati svariate volte in marchi differenti, situazione che è perdurata anche dopo la prima crisi (in cui, tra le altre, si videro delle Innocenti IM3 e Regent, tutti cloni italiani di modelli del Gruppo) e quindi durante la gestione Honda. Di questo periodo si ricordano le Triumph Acclaim e le Rover serie 200 e 400, che nei vari step evolutivi erano identificabili come gemelle delle Honda Accord, Concerto e Civic, con poche differenze identificabili essenzialmente nelle finiture e in pochi altri particolari, oppure – in senso inverso – la declinazione Honda della Land Rover Discovery 1, che i giapponesi conobbero come Honda Crossroad.
LA REALTA' AMERICANA - Intanto sull'altra sponda dell'Atlantico il badge engineering era diventato la norma. La causa scatenante fu la crisi che disorientò i costruttori americani negli anni Settanta, impreparati davanti all'invasione orientale e, soprattutto, obbligati a correre ai ripari inventandosi il segmento delle “compact” e delle “sub-compact”. Impacciata nella realizzazione di automobili compatte, Detroit si rivolse direttamente all'Europa, usufruendo delle proprie controllate nel Vecchio Continente. Esemplare, al riguardo, l'esperienza GM che importò sul suolo americano dapprima le vetture della tedesca Opel (GT 1900 e Kadett Coupè in primis), salvo poi effettuare vari e curiosi rebadge, di cui fu protagonista la stessa Kadett, nelle sue evoluzioni distribuita come Chevrolet Chevette, Pontiac 1000, Le Mans e Asuna, nonchè – sfruttando la corrente dei marchi giapponese – Isuzu Kadett Opel (commercializzata dalla rete Buick). Quello di GM verso il badge engineering fu un vero e proprio amore, espressosi anche con le sportive Pontiac e Chevrolet per il mercato americano e con il rinnovo delle gamme Vauxhall, per il Regno Unito, Holden , per l'Australia e Chevrolet per Brasile e America Lantina. Negli anni Settanta questi brands proposero nei rispettivi mercati gamme omologabili in gran parte a quella della tedesca Opel, che divenne di fatto il “centro di sperimentazione” per le compatte del colosso di Detroit. Di derivazione Opel erano anche gli ultimi modelli della defunta Saturn, le Cadillac Cimarron (Opel Ascona) e Catera (Opel Omega), derivata Saab è stata la recente erede della vecchia Cimarron, ovvero la BLS. Ancora, negli anni Novanta, la partner coreana Daewoo proponeva una versione aggiornata della Kadett, che da anni produceva per il mercato interno, la Nexia. Proprio Daewoo ha recentemente subito sui principali mercati, la sostituzione del proprio marchio con il brand è diventato Chevrolet. Tra l'altro è singolare come la doppia losanga di Detroit sia anche scesa in campo sull'erede della Lada Niva che nell'Europa dell'Est è nota come Chevrolet Niva. Seppur lontani dall'integrazione Made in GM, anche le holding Ford e Chrysler si dedicarono “con passione” a questa tecnica. Da ricordare in Ford le declinazioni con marchio Mercury dell'intera gamma americana, con i cammeo della Capri, divenuta negli anni Settanta “Mercury Capri” e della più recente Cougar. Sul campo dei SUV la mente torna alla Maverick, semplice rebadge della notissima Nissan Terrano. Tra l'altro, il rapporto tra Ford e le case orientali, si espresse al meglio negli anni Novanta, quando l'integrazione con Mazda fu spinta ai massimi livelli: un'intera famiglia di compatte per il marchio USA e l'insolita Mazda 121 del '96, gemella della Ford Fiesta. Chrysler, la terza tra le Big Three, impantanatasi negli anni Settanta con l'affare Simca (divenuta Chrysler France), cercò di far fruttare queste sinergie realizzando dapprima uno scambio di marchi tra Europa e U.S.A. (le vecchie Simca, divennero Chrysler e/o Plymouth), rinnovando la gamma con un prodotto trasversale come la 1307 – che però non giunse mai nel ricco mercato Nordamericano – e soprattutto con un'autentica world car come la Horizon, commercializzata in mezzo mondo e venduta con i marchi Simca, Chrysler, Dodge e Plymouth (prima di rinascere come modello Peugeot- Talbot). Da non dimenticare, poi, gli accordi tra la Casa di Detroit e DeTomaso, che condussero alla realizzazione di una particolare versione della coupè Dodge Omni (tecnicamente derivata dalla Horizon), con motore da 1.7 litri (di derivazione Volkswagen) e commercializzata con il nome “Dodge De Tomaso” e, soprattutto, che generarono l'insolita “Chrysler's TC by Maserati”, una sorella della LeBaron e prodotta a Lambrate con il curioso logo di un Tridente inserito nel Pentagono della Casa americana.
NEL VECCHIO CONTINENTE - Con Chrysler e De Tomaso torniamo ad affacciarci al mercato europeo, dove la British Leyland, seppur la più nota nel campo, era comunque in buona compagnia. Non si può sorvolare sui primi trent'anni di vita della Seat, che sotto il controllo Fiat aveva una gamma notoriamente “clone” rispetto a quella torinese. Fiat che, tra l'altro, si era già espressa negli anni Trenta e Quaranta, in un'analoga operazione con la francese Simca, a cui seguirono la tedesca NSU e la Steyr-Puch, nonché la polacca FSO, la russa Lada e la yugoslava Zastava. Se Lada regalò una vita lunghissima alla Fiat 124, la piccola casa austriaca Steyr Puch, invece, si dedicò al rebadge della Nuova 500, che presentava, rispetto all'omologa Fiat, finiture migliori e motorizzazioni più prestazionali. Nel novero di chi, con accordi di collaborazione a vario titolo realizzò rebadge di modelli Fiat c'è il gruppo PSA, con cui Fiat vanta decenni di collaborazioni nel campo dei veicoli commerciali (gestiti dalla società Sevel) e da cui la Casa torinese ha attinto due generazioni di monovolume, nate in PSA e ribattezzate sotto l'egida Fiat/Lancia. La Renault, invece, produsse – per forniture militari – la TRM500, un gemella della Nuova Campagnola e, in operazioni analoghe si cimentarono la Citroen (clonando la Volkswagen ILTIS) e la Peugeot che, con la sua P4 produsse una versione francese della Mercedes G, già nota in Austria con marchio Steyr-Puch. La Germania vide anche la nascita di uno dei suoi modelli di punta, la Volkswagen Polo, da un rebadge “in famiglia”. La prima generazione della Polo, infatti, derivò da un riposizionamento della piccola Audi 50. Mentre l'utilitaria dei Quattro Anelli non ebbe praticamente eredi (fino ad oggi), la Polo ha generato una lunghissima progenie di modelli attraverso quasi quattro decenni.
BADGE ENGINEERING: UNA NECESSITA' - E con il gruppo VAG chiudiamo la nostra panoramica. Quelli elencati sono frutto di una semplice selezione in un universo di episodi interessanti che riguardano l'argomento. La lettura ci da la misura di quanto il badge engineering sia una tecnica antica, rodata e, soprattutto, necessaria. L'automobile è un prodotto industriale di indubbia complessità, per il quale il contenimento dei costi rimane un punto cardine. Tuttavia qualche dubbio sull'efficacia di questa tecnica rimane, rimane essenzialmente in termini di immagine. Se non altro perchè, ad un indagine sommaria, non si può sorvolare sul un concetto fondamentale, ovvero che il badge engineering è un processo complesso e pericoloso. Ha regalato indubbi vantaggi all'industria, per esempio nel settore dei veicoli commerciali e industriali, in cui le caratteristiche tecniche acquisiscono importanza primaria rispetto ad altro, ma allo stesso modo ha mietuto vittime spesso anche illustri e di notevole peso: l'industria automobilistica americana “tradizionale”, caduta negli ultimi due anni sotto il suo stesso peso, ne è il grave esempio. Tuttavia sembra che l'industria riesca sempre meno a prescindere da questa soluzione, soprattutto in un mercato come quello attuale, costantemente stressato dalla concorrenza, dalle normative di omologazione e dai giochi mediatici e che, soprattutto, vede nelle zone più ricche del Pianeta trend sempre più orientati intorno allo zero.
(Fonte: www.omniauto.it - 22/1/2011)

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