Gli ultimi cinque anni sono stati tra gli anni peggiori nella storia del mercato automobilistico mondiale, eppure – o forse proprio per questo – sono stati tra gli anni in cui più si è parlato del mercato dell’auto e del suo futuro: produttori tra i più grandi e importanti al mondo sono stati travolti dalla crisi del 2008, fallendo, svendendosi o costringendo governi già in grande difficoltà a intervenire per salvare il salvabile. Un pezzo importante di questa storia è girato intorno a Chrysler, storica azienda automobilistica statunitense, ed è un pezzo che si è intrecciato con la storia italiana per via del ruolo decisivo avuto dall’azienda italiana Fiat nel suo salvataggio: dal primo gennaio del 2014 quelle due storie sono diventate una cosa sola, con l’acquisizione da parte di Fiat del 100 per cento di Chrysler. Ma quella di Chrysler è una storia che viene da molto lontano, e che per forza di cose in Italia conosciamo molto meno di quella di Fiat. La Chrysler Corporation nacque ufficialmente nel 1925, ma stava già nella vita del suo fondatore, Walter Percy Chrysler, considerato oggi un genio dell’ingegneria e dell’imprenditoria. Era nato in Kansas nel 1875, ultimo di tre fratelli, e a 18 anni iniziò a lavorare per le ferrovie come apprendista macchinista. Prendeva cinque centesimi all’ora, e imparò un sacco di cose sui motori a vapore, gli stessi in uso anche nelle automobili. Dopo quattro anni si trasferì a Ovest, dove nel 1900 si sposò e prese lezioni di ingegneria elettrica per corrispondenza. Lavorava sempre per le ferrovie, come meccanico, e in pochi anni diventò caposquadra: nel 1904, a soli 29 anni, era a capo di mille operai e guadagnava 140 dollari al mese. In seguito, raccontò così quegli anni: “Nel lavoro manuale c’è una gioia creativa che solo i poeti credono di provare. Un giorno mi piacerebbe mostrare a un poeta come ci si sente a progettare e costruire una locomotiva”. Il suo interesse per le automobili cominciò nel 1908: aveva visto una Locomobile all’Esposizione di Chicago, in vendita a cinquemila dollari. Chrysler possedeva solo 700 dollari, ma si fece prestare gli altri 4.300 e se la comprò. Non la guidò per tre mesi perché voleva studiarla, quando lo fece per la prima volta – per la prima volta nella sua vita – finì nel giardino dei vicini, secondo le leggende successive. Qualche tempo dopo, a 36 anni, lasciò le ferrovie per andare a lavorare come capo officina alla Buick – storica casa produttrice di auto di Detroit – con uno stipendiò della metà di quello che prendeva prima. Iniziò a razionalizzare le spese annotando il costo di ogni singolo componente delle auto, a partire dalle viti: erano anni in cui si faceva carriera in fretta, lui era molto in gamba e sotto la sua guida la Buick incrementò notevolmente la produzione. Nel 1916 Chrysler ne divenne presidente. Anche il suo stipendio cambiò notevolmente, e quando gli fu proposto pensò di non aver capito bene: era entrato come operaio malpagato e in pochi anni era arrivato a ricevere uno degli stipendi più alti degli Stati Uniti. Chrysler si licenziò dalla Buick quattro anni dopo, nel 1920, dopo qualche divergenza con la proprietà. Gli fu proposto di entrare nella Willys-Overland, un’azienda produttrice di auto che in quel momento era in difficoltà economiche, per risollevarla: Chrysler accettò e in due anni ridusse il debito da 50 a 18 milioni, pretendendo un compenso di un milione all’anno. Nel frattempo mise tre ingegneri – Fred Zeder, Owen Skelton, e Carl Breer – al lavoro su un progetto per una nuova macchina, e iniziò a lavorare per la Maxwell Motors, un’altra azienda in crisi. Anche in questo caso Chrysler riuscì a garantirne la ripresa economica. Cercò poi di comprare il progetto su cui aveva messo a lavorare i suoi ingegneri ma Billy Durant – fondatore di General Motors, un altro pioniere dell’industria automobilistica americana, ex capo di Chrysler alla Buick – fece un’offerta più alta. Da quel progetto nacque la Flint, una storica automobile che prese il nome dalla città del Michigan dove era prodotta (e dove avevano sede le più importanti fabbriche di automobili, tra cui la General Motors). Chrysler allora portò i suoi tre ingegneri di fiducia con sé alla Maxwell per sviluppare un nuovo tipo di motore. La Maxwell aveva bisogno di finanziamenti per iniziare la produzione e l’occasione per trovarli era il New York Auto Show del 1924. Per ottenere uno spazio espositivo, però, le macchine dovevano essere già in produzione. Chrysler allora affittò una sala dell’hotel dove alloggiavano gli uomini d’affari giunti in città per la fiera e vi espose il suo progetto, che trovò immediatamente i fondi. Furono così prodotti 32.000 esemplari della Chrysler Six, un’auto che poteva raggiungere le 70 miglia orarie (circa 110 chilometri orari), con quattro freni idraulici e il filtro dell’olio sostituibile. Costava 1.595 dollari. Nel 1925 la Maxwell fu riorganizzata e assorbita in una nuova società: la Chrysler Corporation. In due anni diventò la quinta casa automobilistica più importante degli Stati Uniti, con 192.000 auto vendute. Nel maggio del 1927 Chrysler contattò Clarence Dillon, proprietario della Dodge, per acquisire la sua azienda: dopo cinque giorni di trattative in una camera del Ritz-Carlton, i due raggiunsero un accordo. Chrysler incorporò Dodge per 225 milioni di dollari. Nel 1928 Chrysler collaborò al progetto e alla costruzione di quello che sarà il Chrysler Building, uno dei grattacieli più famosi di New York, con la famosa estremità decò che ricalca quella di un radiatore: per un po’ di tempo fu anche l’edificio più alto del mondo, prima che nel 1931 venisse realizzato l’Empire State Building (Chrysler lo vendette nel 1953 ma mantiene il suo nome e la sua fama). Sempre nel 1928 Chrysler lanciò sul mercato la Plymouth e la DeSoto, due divisioni destinate a un grande successo. Era un momento d’oro. Quell’anno Walter Percy Chrysler fu scelto come l’uomo dell’anno da Time. Nel 1934, dopo la Grande Depressione, la Chrysler presentò un modello per l’epoca rivoluzionario: la Chrysler Airflow. Aveva il muso modellato in modo da essere il più aerodinamico possibile. Il pubblico non apprezzò l’azzardo e le vendite andarono male, anche se l’azienda continuò ad andar complessivamente bene grazie al successo degli altri modelli. Il suo modello di business era molto efficace e apprezzato: riusciva a combinare ampi profitti a una ridotta presenza di investitori, evitando il rischio di speculazioni. Quando Walter Chrysler morì – nel 1940, a 65 anni – lasciò a Kaufman Thuma Keller, suo storico compagno fin dai tempi della Buick, la guida di un’azienda che era allora la seconda casa automobilistica più importante degli Stati Uniti, dietro la General Motors. Nel 1936 infatti Chrysler aveva superato la Ford – Ford, Chrysler e General Motors erano e sono note come le Big Three di Detroit. Dopo l’attacco di Pearl Harbor, nel 1941, Chrysler iniziò la produzione di armamenti per l’esercito, come il motore per il Boeing B-29, il modello di aeroplano che sganciò le bombe atomiche su Hiroshima e Nagasaki. Negli anni Cinquanta Chrysler collaborò al programma spaziale realizzando dei componenti per i missili Redstone e nel decennio successivo per i razzi del programma Apollo. Nel 1955 fece uscire per Dodge la storica Le Femme, un’auto interamente rosa pensata per le donne: stava finendo l’epoca dell’auto concepita unicamente come mezzo di trasporto familiare, guidata rigorosamente dal capofamiglia. Negli anni Sessanta, invece, come tutte le principali marche americane di auto, produsse le sue “muscle car”, le auto aggressive e ad alte prestazioni molto diffuse in quel periodo, come la Ford Mustang o la Pontiac GTO. Chrysler produsse la 300F, Plymouth GTX, la Dodge Daytona e molte altre. Ma la sua fetta di mercato automobilistico americano era diminuita: nel 1975 era al 14 per cento, con Ford al 28 per cento e GM al 53 per cento. I nuovi modelli non avevano ottenuto il successo dei vecchi. La crisi petrolifera degli anni Settanta portò a una drastica riduzione delle vendite, tanto che nel 1979 l’azienda dovette chiedere al Congresso un prestito di 1,5 miliardi di dollari per sopravvivere. Negli anni Ottanta, sotto la guida dell’amministratore delegato Lee Iacocca, le cose andarono meglio: nel 1987 la società acquisì il profittevole marcho Jeep e anche il marchio Lamborghini (poi rivenduto nel 1994). È proprio alla fine degli anni Ottanta che iniziano i contatti tra Chrysler e Fiat: nel 1988 Chrysler divenne distributrice delle auto Alfa Romeo nel Nord America. Alla fine degli anni Novanta, fu firmato un accordo di fusione tra Chrysler e la casa tedesca Daimler-Benz: in sostanza, però, il controllo della Chrysler passò ai tedeschi, e l’azienda cambiò il suo nome in DaimlerChrysler. Fu un disastro. Gli standard e la produttività di Chrysler erano ormai lontani da quelli di Ford e General Motors. Daimler investì inutilmente moltissime risorse, pregiudicando la sua stabilità finanziaria: nel 2001 un ambizioso nuovo modello di minivan, settore nel quale Chrysler aveva il dominio del mercato, fu lanciato malamente e provocò grandi perdite (direttamente e in termine di quote di mercato); un modello molto popolare, invece, il PT Cruiser, fu prodotto in quantità insufficiente. Ci fu qualche anno migliore, tra il 2004 e il 2005, e qualche altro anno di perdite, e alla fine nel 2007 Daimler cedette l’80 per cento di Chysler al fondo Cerberus Capital Management, uno dei più grandi degli Stati Uniti, che aveva intenzione di rivenderla dopo poco. Chrysler tornò Chrysler Motors, DaimlerChrysler tornò Daimler. Ma nel frattempo arrivò la crisi. Le vendite di Chrysler arrivarono a diminuire anche del 30 per cento rispetto all’anno precedente, non c’erano modelli forti su cui puntare, l’intero mercato dell’auto collassò e quindi nemmeno General Motors – con la quale negli anni si era parlato di fusioni o collaborazioni – riuscì a evitare il colpo. Il governo statunitense dovette intervenire per evitare il fallimento delle Big Three, Chrysler compresa, ma la liquidità non bastava a rimettersi in carreggiata: il prestito allora fu subordinato a un rinnovamento dell’azienda da portare avanti attraverso la cessione del 20 per cento delle azioni a Fiat e di un’altra fetta delle azioni a un fondo del sindacato dei lavoratori. Sergio Marchionne, amministratore delegato di Fiat, assunse il comando operativo della casa automobilistica statunitense. Chrysler iniziò allora a riprendersi, insieme a Ford e General Motors e in generale al mercato dell’auto statunitense. Ha restituito in anticipo i prestiti ricevuti dal governo statunitense, e nel 2012 è tornata a produrre utili. Nel 2011 comprò uno spazio pubblicitario durante il Super Bowl per uno spot molto apprezzato il cui senso era appunto: siamo tornati. Fiat ha messo a disposizione di Chrysler alcune sue tecnologie sui motori, soprattutto quelli più avanzati nella tutela dell’ambiente, e ha aiutato l’azienda a distribuire alcuni suoi modelli in Europa; e ha usufruito della rete di Chrysler in Nord America per lanciare alcuni suoi modelli di auto. Negli ultimi anni ha progressivamente aumentato la propria quota azionaria, finché ha annunciato di aver raggiunto un accordo con Veba, il fondo del sindacato americano dell’auto, che dopo la crisi aveva assunto il controllo del resto delle azioni Chrysler. E così Fiat, che aveva il 58,5 per cento di Chrysler, ha acquistato per 3,65 miliardi di dollari il rimanente 41,5 per cento.
(Fonte: www.ilpost.it - 4/1/2014)
Nessun commento:
Posta un commento