lunedì 3 febbraio 2014

Elkann intervistato da Calabresi: "Con FCA il futuro dell'auto in Italia è più solido"


Il mio ufficio è questo, quello in cui mio nonno ha passato gli ultimi 5 anni della sua vita, e non si sposterà, resta qui, al Lingotto. Non ci sono scatoloni in giro perché nessuno ha mai pensato di traslocare. Vivo a Torino, i miei figli sono nati qui, qui vanno a scuola e qui hanno gli amici». John Elkann allarga le braccia di fronte alle profezie che lo volevano in fuga, insieme alla Fiat, dall’Italia: «È successo il contrario e questa è davvero una bella giornata perché il futuro dell’auto nel nostro Paese ora è molto più solido e ha prospettive che non avremmo mai potuto immaginare solo qualche anno fa». E’ tornato alla sua scrivania, dopo il consiglio che ha varato la nuova Fiat Chrysler Automobiles (Fca) e dopo un pranzo con i rappresentanti di tutte le componenti della famiglia Agnelli. Nel suo atteggiamento non ci sono tracce delle difficoltà, degli scontri e delle polemiche degli ultimi anni. E’ sereno, sollevato e convinto che la scommessa era quella giusta: «Basti pensare a quello che abbiamo fatto con Maserati, che ha addirittura raddoppiato le vendite. Il progetto Premium, la scelta di puntare sui segmenti alti del mercato mondiale, sta funzionando molto bene e ha rimesso in gioco l’Italia. E all’interno di questa strategia è arrivata l’ora del rilancio di Alfa Romeo: c’è un enorme impegno su questo, il progetto è in stato avanzato e il nostro Paese ne sarà protagonista». John Elkann è presidente di Fiat da quattro anni ma siede nel Consiglio da ben diciassette: ha fatto in tempo a soffrire tutto il declino di quella che era la più grande azienda italiana e ora, che sente che la rotta è invertita, che «una squadra che ormai lottava solo per la salvezza è risalita nella parte alta della classifica», ha voglia di fare un bilancio. Di rifare il percorso degli ultimi vent’anni, di individuare gli errori che hanno portato la Fiat a un passo dalla scomparsa, di raccontare il giorno, anzi la sera, in cui le cose cominciarono a cambiare e di mettere a fuoco la ricetta della salvezza: «Non chiudersi mai nei propri confini, stare agganciati al mondo e concentrarsi solo su quello che si è capaci di fare davvero bene». Solitamente Elkann non è persona che ama mostrarsi troppo, non sarà un caso che gli industriali italiani che stima di più per quello che hanno costruito nella vita, Leonardo Del Vecchio e Michele Ferrero, siano famosi per non rilasciare mai interviste. Ma le domande che oggi circondano il gruppo e la sua famiglia hanno bisogno di risposte chiare. Appoggio sulla scrivania un foglio che ne elenca 26, alla fine avrà risposto a tutte tranne che a una, l’unica fuori tema, quella in cui gli chiedevo se Paul Pogba resterà alla Juventus. «E’ un grande... ma non ci casco: se no domani si parlerebbe solo di questo e non del futuro delle fabbriche».
Partiamo proprio dai lavoratori: ci saranno produzioni sufficienti per tenere aperti tutti gli stabilimenti italiani?
«L’obiettivo che abbiamo, se il mercato non ci tradisce, è di tornare ad avere tutte le persone al lavoro nelle nostre fabbriche».
Facciamo chiarezza, quale sarà la sede di Fca, il suo quartier generale?
«Non esisterà “una” sede, già oggi ce ne sono quattro: Detroit per il Nord America, Belo Horizonte per il Sud America, Shanghai per l’Asia e Torino per l’Europa».
Ma quale sarà il ruolo del Lingotto?
«Torino sarà il centro di un mercato immenso che copre Europa, Medio Oriente e Africa, ma non solo: è qui il cuore del progetto Premium su cui abbiamo scommesso una parte importante del nostro futuro».
Per la sede legale di Fca però avete scelto l’Olanda.
«È il domicilio ideale, prima di tutto perché è un luogo terzo rispetto a Italia e Stati Uniti e poi perché la forza di questo piccolo Paese è favorire dal punto di vista normativo le multinazionali».
Quante tasse risparmierete da questa scelta?
«Assolutamente niente: continueremo a pagare le tasse in tutti i Paesi in cui facciamo utili, Italia inclusa».
Però dal consiglio che ha varato la nascita di Fca è venuta conferma che per la sede fiscale si punta alla Gran Bretagna. È forse questo il modo per pagare meno tasse?
«No, lo ripeto: le tasse noi le paghiamo dove produciamo e vendiamo i nostri prodotti facendo utili. Il vantaggio di Londra è legato a un regime più favorevole per gli investitori americani che speriamo di attrarre con questa fusione».
Lei ha appena incontrato a colazione gli altri membri della famiglia. Cosa pensano di questa fusione, soprattutto i più anziani?
«La famiglia è convinta e compatta, da mia zia Maria Sole ai cugini più giovani. In tutti questi anni hanno sostenuto la Fiat con forza. L’entusiasmo e il senso di orgoglio che ho sentito sono lo stimolo migliore per andare avanti».
C’è però chi sostiene che non volete mettere mano al portafoglio nonostante Fca nasca molto indebitata e mentre continuate a ricevere i dividendi.
«Non è assolutamente vero: Fca presenterà il suo piano a maggio e noi di Exor, davanti ad un progetto in cui crediamo e alle buone prospettive che già si vedono, vogliamo esserci. Quanto ai dividendi, proprio per lavorare sull’abbattimento del debito e favorire gli investimenti, anche quest’anno non verranno distribuiti agli azionisti».
Ma facciamo un passo indietro, a Detroit poche settimane fa ha detto che negli ultimi venti anni non c’è stato giorno in cui non sia stato preoccupato per la Fiat.
«Da quando sono entrato in Consiglio ho sempre sentito che la situazione era estremamente precaria e ogni anno avevo la sensazione che la nostra squadra giocasse solo per la salvezza».
Eppure vent’anni fa era appena stata lanciata la Punto e basta fare un piccolo passo indietro per vedere una Fiat che teneva testa alla Volkswagen, che veniva dal decennio della Uno, della Croma, della Thema…
«Ma alcune volte, nell’ultimo ventennio, abbiamo rischiato di fallire».
Cos’è successo in questi vent’anni che ha deteriorato così la situazione e vi ha fatto sprofondare in classifica?
«Abbiamo sbagliato a non aprirci a sufficienza al mondo e l’errore più grande è stato di voler fare troppi mestieri, dalle assicurazioni ai motori aerei, dalla grande distribuzione ai treni, invece di concentrarci su quello che sapevamo fare. Abbiamo imparato molto da quegli errori e negli ultimi dieci anni ci siamo concentrati solo su due cose: fare automobili e svilupparci globalmente».
Non tutti la pensano così: si dice che Marchionne sia prima di tutto un bravo finanziere mentre di modelli non ne avete poi fatti molti.
«È stata una nostra scelta precisa non lanciare nuovi modelli in un mercato negativo ormai da anni e Marchionne di auto ne capisce eccome. Guardiamo ai fatti: solo nell’ultimo anno la 500L è stata eletta novità dell’anno in Italia, la Jeep Gran Cherokee è risultata il Suv più premiato di sempre, per la seconda volta di fila il Ram 1500 è stato nominato truck dell’anno negli Usa e proprio ieri anche in Francia, come già in Spagna e Gran Bretagna l’Alfa Romeo 4C ha vinto il premio di auto più bella del 2013. Il nostro twin air 0.9 turbo bi-fuel a metano è stato premiato in Germania come miglior motore dell’anno e le nostre fabbriche oggi sono tra le più all’avanguardia nel mondo».
Prima di arrivare a questo traguardo però ci sono stati i giorni dello sconforto, della paura che partissero i titoli di coda di una storia centenaria. Ci racconta il giorno peggiore di questi anni?
I ricordi non devono essere dei migliori perché istintivamente si allenta la cravatta e poi se la toglie. «Purtroppo i giorni dello sconforto sono stati tanti, vivevamo con l’acqua alla gola, se penso al 2004 e al 2005 quando dovevamo affrontare contemporaneamente troppe partite complicate: la trattativa con General Motors, i problemi con le banche e il fatto che dipendevamo da pochi prodotti e sostanzialmente da due soli mercati, Italia e Brasile. Era tutto precario, eravamo gli ultimi in classifica e lottavamo per la sopravvivenza».
Cosa le rimane di quella primavera del 2004 in cui non solo la Fiat, ma anche la famiglia Agnelli perse i suoi punti di riferimento?
«Ricordo come mi sentivo e non è un bel ricordo, dopo la morte del nonno e dello zio Umberto sentivo il peso della responsabilità. Responsabilità di essere all’altezza della storia familiare ma soprattutto delle tante persone che lavoravano per la Fiat».
Quale era il clima che la circondava?
«Fuori c’era molta sfiducia nei nostri confronti, ma nonostante tutto sembrasse segnato bisognava cercare di andare avanti, bisognava cercare una soluzione che assicurasse un futuro che non fosse di corto respiro».
Quale è stato il momento cruciale?
«È stata una cena, nella sera terribile in cui sarebbe morto Umberto, il 27 maggio del 2004. Andai a Ginevra all’Hotel D’Angleterre per parlare con Sergio Marchionne. Dal 2002 al 2004 erano cambiati cinque amministratori delegati, poi era scomparso il nonno e ora era in fin di vita lo zio, la situazione era disperata. Chiesi a Sergio se era disponibile a prendere la guida della Fiat e per me fu un momento di svolta perché sentii che per la prima volta avevo trovato un uomo che ispirava fiducia. Dopo che lo convinsi a pensarci seriamente fumammo ancora una sigaretta, per me sarebbe stata l’ultima, la mia vita cambiava e non ne avrei più accesa una».
Su cosa vi siete trovati in sintonia?
«Nella convinzione che Fiat fosse troppo piccola, che non si poteva più continuare a lottare solo per non retrocedere e nel sapere che di lì a poco non ce l’avremmo più fatta a salvarci. E poi nel rifiutare la logica di soluzioni precarie che si basassero su aiuti governativi, fatte con il denaro pubblico. Queste soluzioni non funzionano e non sono durature come dimostra il caso di Alitalia, ma potrei citarne tanti altri».
E’ a quel punto che avete guardato fuori dai confini nazionali, cercando qualcuno disponibile a un matrimonio, da Peugeot a Opel?
«Abbiamo percorso tante ipotesi e aperto un sacco di trattative con molti dei nostri concorrenti, per vedere come affrontare il problema insieme, ma l’intervento ogni volta dei vari governi nazionali non lo ha permesso, ha impedito soluzioni di mercato sostenibili».
Nel frattempo però sembrava esserci qualche spiraglio?
«Ho pensato che la luce potesse essere il lancio della 500, nell’estate del 2007, ma non abbiamo fatto in tempo a godercela che siamo precipitati nella crisi mondiale».
Che avete trasformato nella più grossa delle opportunità.
«Visto che in Europa non c’era spazio abbiamo guardato dall’altra parte dell’Oceano dove abbiamo trovato l’amministrazione Obama che si è fortemente impegnata per creare le condizioni per far rinascere un’industria automobilistica sana, forte e con un futuro».
E lì vi siete fidanzati con Chrysler.
«In quel momento ci voleva molto coraggio a fidanzarsi con Chrysler, che aveva un aspetto terribile. Ma questa è la dote di Marchionne, di non farsi spaventare dalle difficoltà e di saper vedere oltre le apparenze».
Quando ha capito invece che era tempo di cominciare a pensare anche al matrimonio?
«In due momenti, il primo è stato la presentazione del piano di rilancio della Chrysler, era l’autunno del 2009 e in quel momento mi si è aperto davanti agli occhi un mondo nuovo e ho sentito che poteva essere la fine di una condizione di precarietà. Il secondo quando abbiamo finito di pagare il debito con il governo americano: quel giorno il fidanzamento è diventato una cosa seria e, per stare nella metafora, è il momento in cui con Chrysler ci siamo scambiati gli anelli».
Adesso siete il settimo gruppo nel mondo, diciamo che avete raggiunto la metà classifica, ma quanto è importante essere nei primi cinque, provare ad entrare nel gruppo di testa?
«Non c’è dubbio che nella posizione in cui siamo saliti si sta molto meglio e più al sicuro e poi oggi Fca ha una gamma completa, presente su tutti i mercati e questo significa che siamo una realtà competitiva che può giocarsi la partita».
Ma sono pensabili nuove operazioni di alleanza per aumentare i volumi?
«I volumi come tali non sono da soli sufficienti, tanto che General Motors, pur essendo il più grande produttore di auto al mondo, è poi fallita nel 2009. Ma è anche vero che, se la cosa è ben gestita, avere più volumi è un indubbio vantaggio».
Martedì siete stati a Palazzo Chigi per anticipare a Enrico Letta le decisioni del Consiglio che ha sancito la nascita di Fca, che reazione avete avuto?
«E’ andata molto bene, il presidente del Consiglio ha apprezzato il fatto che ora le prospettive dell’auto in Italia sono destinate a crescere e saranno durature. Non poteva non fargli piacere ricevere buone notizie nel momento in cui ce ne sono troppe negative ogni giorno». Mentre si sta parlando del governo entra Sergio Marchionne: «Se venite da me vorrei farvi vedere una cosa, i nostri spot per la notte del Superbowl» la finale del football americano che si giocherà domenica prossima. Dopo Eminem e Clint Eastwood, protagonisti di due spot lunghissimi di Chrysler che hanno cambiato il modo di fare pubblicità in America, un altro nome che farà molto rumore. «Oggi la nostra comunicazione e la nostra creatività sono le più innovative al mondo» commenta Elkann, mentre usciamo dall’ufficio di Marchionne. 
Anche lui non ha previsto traslochi?
«Continuerà ad avere il suo ufficio qui, di fronte al mio, insieme ai tanti altri che ha. La verità è che non ha un ufficio, la sua casa è l’aereo».
(Fonte: www.lastampa.it - 30/1/2014)

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