sabato 8 febbraio 2014

I commenti su FCA (1): oltre la demagogia


Davvero la holding che cambia pelle e prende sede sociale in Olanda e sede fiscale in Gran Bretagna diventa nient’altro che un gruppo apolide? Scattano riflessi ideologicamente condizionati, si regolano vecchi e presunti conti, una parte della politica sceglie la via sicura della dichiarazione indignata e subito la nebbia fitta della demagogia avvolge ogni fatto. Nelle fabbriche americane del gruppo Chrysler, da Toledo in Ohio a Jefferson North in Michigan, là dove si guarda alla nuova società dall’altra parte dell’Atlantico, restano «proud to be American», come recitano i manifesti sui muri, e non si turbano – anzi – del fatto che l’italiana Fiat sia passata da una maggioranza relativa al 100% del gruppo, se questo significa il salvataggio da un passato impossibile e la promessa di un futuro migliore. Negli interminabili corridoi della sede Chrysler ad Auburn Hills – solo 7000 dipendenti nel 2009 quando il fallimento incombeva e più del doppio adesso – restano ovviamente la bandiera a stelle e strisce e il memoriale «per i nostri soldati», con l’elmetto e un paio di anfibi a simboleggiare il milite ignoto Usa. Sulle linee di produzione il pragmatismo ha la meglio sull’ideologia e lo si vede nella collaborazione quotidiana tra i manager e gli operai iscritti al sindacato Uaw. Del resto quanto può pesare il passaporto della proprietà se – come è successo a Toledo, nella casa della Jeep – i posti di lavoro passano da duemila a oltre quattromila nel giro di un anno? Non diverse dalle voci dall’America sono quelle che si sentono anche negli stabilimenti italiani del gruppo dove già vedono i primi effetti di un’integrazione che significa anche migliore e maggiore accesso a nuovi mercati. La Maserati di Grugliasco, di cui abbiamo raccontato anche ieri sul giornale, quando fu rilevata da Fiat nel 2009 era uno stabilimento abbandonato che sfornava solo – e non è un modo di dire – topi; adesso da qui escono berline di lusso che vanno soprattutto in Cina e negli Stati Uniti e chi ci lavora non pare temere un futuro comune con il resto del nuovo gruppo. Come è ovvio la scommessa – quella di azionisti e management prima di tutto – è che lo stesso effetto virtuoso si abbia anche con la rinascita del marchio Alfa Romeo destinato a occupare la fascia «premium» del mercato, con l’arricchimento della famiglia della 500, con la piccola Jeep che arriverà presto da Melfi, con il Suv della Maserati per il quale a Mirafiori sono già partiti investimenti per circa un miliardo. Ma pare davvero difficile vedere dietro questo progetto di una Fiat più forte, anche se policentrica, un’Italia e una Torino più deboli. E soprattutto si stenta a capire quale alternativa possa proporre chi, di fronte a una fusione internazionale che aspira a garantire il futuro del gruppo, grida alla «fuga» dell’azienda dall’Italia. Certo, anche in America qualcuno – lo ha fatto il blog di una celebre rivista di settore come Automotive News – si chiede se si possa ancora parlare di una Chrysler americana e se Detroit avrà ancora tutte quante le sue «Big Three» dell’auto ora che una di esse sposta il suo baricentro sociale verso l’Europa. Ma proprio questi dubbi, speculari a certi timori italiani che si sentono oggi, rivelano quel che è ovvio: ossia che in una grande fusione, progettata ed eseguita per essere competitivi su scala globale, ci sarà sempre chi si sente abbandonato e preferirà guardare indietro invece che avanti; si attaccherà a ciò che teme di perdere invece che a quello che spera di guadagnare. Non esattamente una ricetta per il successo in una fase storica in cui non solo le aziende, ma anche i Paesi, competono tra di loro in cerca di capitali – quelli sì – sempre più mobili.
(Fonte: www.lastampa.it - 31/1/2014)

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