La vecchia Fiat, quella che tutti abbiamo conosciuto, non c’è più. Era nata a Torino nel 1899. Quasi per gioco. Un gruppo di aristocratici si era innamorato di quello strano veicolo con quattro ruote, il volante e il motore e alla domenica organizzavano delle corse fra di loro. Poi si trovavano in piazza San Carlo e commentavano. Le auto venivano dalla Francia. Dopo cercarono di farsene una loro, fondando una prima casa automobilistica. Ma non ebbero successo. Alla fine, diedero vita alla Fiat e chiamarono Giovanni Agnelli, un ufficiale del Savoia Cavalleria, che però era interessato da tempo più alla tecnologia che ai cavalli. Agnelli, a differenza dei suoi amici aristocratici, si rende subito conto che l’auto non è un gioco o un divertimento. E’ l’inizio di un mondo nuovo. La Fiat è l’occasione della sua vita. Decide allora che deve liberarsi dei soci, più interessati a sfidarsi in sciocche gare domenicali che a produrre automobili. E li caccia via. Con metodi un po’ sbrigativi, tanto è vero che ci sarà un processo. Ma il fondatore vince e la Fiat è sua. Finalmente può fare quello che vuole, anche se il vero boom avverrà molti anni più tardi e non con lui. Giovanni Agnelli segna la strada. E scopre anche di essere non di destra, come molti pensano, ma un buon socialdemocratico. Il vecchio Agnelli aveva studiato l’esperienza di Ford ("I miei operai devono guadagnare tanto da potersi comprare le auto che producono") capendo che l’auto e Fiat avrebbero avuto futuro in una società in evoluzione. Il fascismo molto agricolo e guerresco, non gli piaceva. Lui era tutto tecnologia e modernità. La cosa era talmente clamorosa che il Duce lo fece redarguire dal prefetto di Torino perché si ostinava a trattare col sindacato di sinistra e non con quello fascista. Si difese dicendo che i fascisti non avevano iscritti e che lui aveva una fabbrica da mandare avanti. Ma dovette piegarsi. Come ultimo gesto di ribellione, personale e privata, quando arriva l’obbligo della camicia nera, dice alla moglie, Clara Boselli, prendine una bianca e tingila di nero, quando questa pagliacciata sarà finita, la faremo lavare. Poi arrivano le guerre e la lunga parentesi fascista e tutto si complica. Alla Liberazione, gli proibiscono di tornare a dirigere la fabbrica. E lui (morirà poco dopo, nel 1945) alla sera, insieme alla moglie, dalla collina di Torino, guarda la fabbrica. Fuori Agnelli, le redini passano al professor Vittorio Valletta, l’artefice del “miracolo” Fiat del dopoguerra. Uomo molto abile e molto spregiudicato. Sequestrato in fabbrica dagli operai in rivolta, al processo dirà: "Sequestrato? No. Insieme stavamo difendendo la fabbrica". Però sono anni difficili. La palazzina uffici dentro la grande fabbrica di Mirafiori è dotata di pesantissime porte d’acciaio, che si chiudono se c’è odore di contestazione. In quella palazzina gli Agnelli hanno sempre avuto un ufficio, anche se raramente ci sono andati. Valletta è il manager che a Roma si sente dire che l’Italia deve puntare più sull’artigianato che non sui grandi complessi industriali. Lui ascolta, pensa che quelli sono matti, torna a Torino e lancia le prime utilitarie. Aveva ragione lui. L’Italia si riempie quasi subito di 600 e di 500. Sul fronte degli azionisti Valletta non ama avere grane e quindi consiglia al giovane Gianni Agnelli di divertirsi: "Tanto qui ci sono io". E infatti la Fiat guadagna montagne di soldi, il giovane Agnelli scorrazza per l’Europa col suo jet (che ha il permesso di usare le rotte Nato), è considerato uno dei più ricchi del Vecchio Continente, colleziona fidanzate, vive gran parte dell’anno nella più bella villa della Costa Azzurra, fa spesso un salto in America, paese che lui considera la sua vera patria ("Pensa in inglese — dicono i suoi amici — e poi traduce in italiano"). Valletta, però, era anche un duro, durissimo. Ottenuta dall’America la commessa di costruire parte di un aereo, in un solo giorno licenzia tutti i dipendenti di quell’azienda, meno uno. È stato anche l’inventore dell’officina Osr, un capannone dentro il quale non c’era assolutamente niente: ci mandava i sindacalisti più duri. A metà degli anni Sessanta, però, l’infanzia deve finire e i due Agnelli, Gianni e Umberto, cercano di prendere in mano il timone della Fiat. Un’azienda gestita fino a quel momento da Valletta come una specie di vigna. Nell’ufficio contabilità potevano entrare solo lui o la sua segretaria. Ricordo ancora Umberto Agnelli, nel suo ufficio in corso Marconi, davanti all’organigramma dell’azienda: tanti quadratini, uno per ogni controllata, con righe che portavano a chi le controllava. Ma molte righe non portavano in nessuno posto: nessuno sapeva a chi diavolo rispondessero quelle aziende. "Per trasformare questo immenso pasticcio in un’azienda moderna — disse più tardi un collaboratore di Umberto — dovremo spargere molto sangue, tagliare molte teste". La stagione felice dei due Agnelli dura però pochissimo. Prima scoppia il ’68, poi c’è la crisi petrolifera. Di fronte alla prima Gianni e Umberto reagiscono male. Non sanno cosa sia un conflitto industriale e non hanno nessuno che sappia gestirlo. La crisi petrolifera, con le domeniche a piedi, crea altro scompiglio. Un cronista della “Gazzetta” di Torino sente dire che l’Avvocato Agnelli si è suicidato e, diligentemente, telefona in villa e l’Avvocato lo invita a prendere un caffè. Il cronista torna in città e dà la buona notizia: Agnelli è vivo, sta bene, e anche di ottimo umore, abbiamo parlato di sport tutto il pomeriggio. La Fiat, per fortuna, non accetta di lasciare l’auto. Ma naviga sempre in cattive acque e sta in piedi grazie all’appoggio di Mediobanca e di Cuccia (che a un certo punto manda Romiti). In questa lunga stagione disastrata l’Avvocato fa un solo colpo, ma decisivo: assume Vittorio Ghidella. Ghidella veniva dalla Riv-Skf e era considerato un genio degli stabilimenti. Infatti smonta Mirafiori come un Lego e rifà tutto nuovo. Inventa la Uno e rilancia la Fiat. A quel punto tutto sembra a posto. L’avvocato decide che, dopo di lui, Umberto sarà il presidente e Ghidella l’amministratore delegato: il futuro della Fiat è assicurato. Non sarà così. Una faida interna obbliga Umberto e Ghidella a andarsene. Ricordo che all’inizio degli anni Novanta incontro l’Avvocato e che mi sembra rassegnato alla fine di tutta l’avventura: «Il matrimonio di Fiat con Torino e la Fiat è durato cento anni. È una bella durata per un matrimonio». Poi le cose precipitano tutte insieme. Muore il giovane figlio di Umberto, che doveva essere l’erede designato. E nel 2003 muore anche l’Avvocato, probabilmente l’ultimo uomo del Rinascimento italiano. Nel giro di un anno muore anche Umberto. In azienda restano i “ragazzi”: gli Elkann, i figli del primo matrimonio di Margherita. E resta Susanna, probabilmente la persona più determinata e saggia della famiglia. Intanto, è arrivato come amministratore delegato Sergio Marchionne, che molti descrivono come uno dei 3-4 manager migliori d’Europa. Il primo colpo di Marchionne è ai danni della General Motors. La Fiat, qualche anno prima era stata venduta (in parte) alla casa americana, ma con l’obbligo (su richiesta Fiat) di comprare tutto il resto. L’azienda torinese va male e gli americani vogliono sfilarsi di corsa: Marchionne va in America e li lascia andare, dopo che gli hanno dato un miliardo e mezzo di dollari. Infine, il colpo di genio. Arriva la grande crisi e Marchionne (italo- canadese cresciuto in America) convince Obama a affidargli la Chrysler. All’inizio sembra una storia di pazzi: tutte e due le aziende vanno male. Ma poi Chrysler si riprende e si arriva alla fusione. A questo punto la vecchia Fiat dell’ufficiale del Savoia Cavalleria, che l’aveva sfilata agli aristocratici torinesi, non c’è davvero più. Al suo posto c’è un player internazionale dell’auto. Partita non facile, ma che partita!
(Fonte: http://qn.quotidiano.net - 30/1/2014)
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