domenica 8 luglio 2012

Marchionne e l'Italia (2): è delocalizzazione?


Uno stabilimento che apre in Cina, la cassa integrazione per quasi due anni a Torino. Succede alla Fiat ma succede anche alle altre case automobilistiche. È il sorpasso nella produzione, non solo nei consumi, che i paesi del Bric - Brasile, Russia, India e Cina - hanno ormai fatto alla vecchia Europa. È di due mesi fa la rivolta dei sindacati francesi contro l'ipotesi che le case d'oltralpe trasferissero fuori dall'Europa le loro produzioni. È di oggi l'annuncio che Peugeot-Citroën ridurrà del 10 per cento la sua forza lavoro. Succede anche negli U.S.A., con i costruttori di Detroit che nel momento più grave della crisi, due anni fa, ottennero grandi concessioni dai sindacati sulla minaccia di trasferire la produzione proprio in Cina. Ancora lo scorso anno alla Chrysler i sindacalisti spiegavano: "Se non facciamo così, la produzione fugge in Oriente". Nel frattempo Fiat vende sempre meno auto in Italia (meno 24 per cento) e in Europa (meno 12), però Marchionne acquista un altro 3,3 per cento di Chrysler, salendo al 61 per cento del capitale. Il motivo è presto detto: negli Stati Uniti le vendite del gruppo controllato dall'azienda torinese a maggio registrano un incremento del 30,1 per cento rispetto al 2011. Per non parlare del boom della 500: negli U.S.A. (dove venne lanciata nel marzo dello scorso anno) le vendite sono schizzate del 122 per cento rispetto allo stesso mese del 2011. E oggi (a Torino) è stata presentata la versione Suv della ex piccola utilitaria. Nel gioco della lepre l'ultimo che corre è destinato a soccombere. Nel mese di giugno 2012 l'unico gruppo che ha guadagnato quote di vendita in Italia è stato quello coreano della Hyundai. Bassi costi di produzione - per il vantaggio di essere la lepre che viene inseguita - alti margini e alta competitività anche sui mercati depressi d'Europa (che vivono con lo svantaggio di inseguire). Non è solo o tanto una questione di costo del lavoro, una favola alla quale non crede più nessuno da quando si è scoperto che la Volkswagen ha i salari più alti d'Europa. È un problema di sistema: il business, e di conseguenza anche il mercato dell'auto e i posti di lavoro collegati, vanno dove l'investimento rende. Perché non è vero che l'auto è in crisi dappertutto. In Oriente, ma anche nelle Americhe, il mercato tira, e bene. In Asia l'auto produce posti di lavoro a salari sideralmente inferiori ai nostri (200-300 euro al mese) ma immensamente più alti di quelli che percepivano gli attuali operai prima di entrare in fabbrica. La globalizzazione crea certamente molti problemi in giro per il mondo, a cominciare dalla vecchia Europa, ma ne risolve qualcuno altrove. Se negli ultimi dieci anni un miliardo di persone è salito sopra la soglia della povertà, non vorrà dire che stanno bene, ma certo stanno meglio di prima e qualcuno, nel suo piccolo, comincia anche a consumare. Naturalmente il mercato ha le sue regole interne. Quello cinese è assai particolare perché gioca su numeri impressionanti. Se la Cina è tuttora un paese povero, basta che l'uno per cento dei suoi abitanti sia ricco per avere un mercato potenziale di auto di lusso paragonabile a quello europeo. In misura minore è quel che è accaduto per anni in America Latina. Ed è quel che spiega perché lo scorso anno la Cina è diventato il secondo mercato della Ferrari dopo gli Stati Uniti. Un discorso analogo vale per la dimensione della classe media. Altrimenti non si spiega perché nel 2012 la Volkswagen ha venduto nella sola Cina due milioni di auto, equivalenti all'intera produzione del gruppo Fiat. Ora però il fenomeno delle due velocità sta aprendo una nuova frontiera: quella delle auto prodotte in un solo paese. Sfida temeraria con i costi di trasporto di oggi. Ma la differenza di benefit tra i paesi emergenti e quelli a economia matura rende quasi giustificabile la scommessa. Nello stabilimento cinese inaugurato nei giorni scorsi, la Fiat produrrà anche un modello dell'Alfa Romeo destinato al mercato europeo. E già da tempo l'80 per cento delle auto prodotte in Polonia dal gruppo di Torino sono destinate al mercato italiano. È decisivo il ruolo della politica in queste scelte. Gli operai serbi di Kragujevac possono finalmente tornare al lavoro dopo gli anni dura della guerra e della ricostruzione perché la Serbia è fuori dalle regole europee, ha ottenuto importanti finanziamenti dalla Bce ed ha potuto permettersi di offrire alla Fiat uno stabilimento quasi a costo zero. Ed è questo il motivo per cui a Mirafiori la cassa integrazione è stata prolungata di un anno, in attesa di un nuovo modello in sostituzione di quello serbo.
(Fonte: www.repubblica.it - 3/7/2012)

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