sabato 7 luglio 2012

Marchionne e l'Italia (1): i nodi irrisolti


L'ultimo scenario disegnato da Sergio Marchionne, con la possibilità di chiudere uno stabilimento in Italia se dovesse perdurare l'attuale crisi del mercato auto, rappresenta l'apice estremo nel rapporto sempre più incerto tra l'amministratore delegato del Lingotto e il Paese. Non si tratta, infatti, solo di relazioni sindacali rese complicate e spesso conflittuali dalle scelte recenti del manager. Le stesse difficoltà e le incomprensioni segnano i rapporti con la politica, la magistratura e persino le leggi italiane, non adeguate, secondo Marchionne, al resto dell'Occidente industrializzato, al punto da essere "folcloristiche". Con la sua dichiarazione sull'esistenza di "uno stabilimento a rischio in Italia se non si riuscirà a produrre per gli Stati Uniti" il manager italo-canadese ha riacceso la polemica, creando qualche irritazione anche negli ambienti di governo, finora rimasti abbastanza alla finestra rispetto alle "guerre" dell'a.d. . Marchionne, del resto, conferma la sua abitudine di fare discorsi ipotetici e di scenario possibile - perché sempre riferiti all'andamento del mercato -, che però lasciano i suoi interlocutori "istituzionali" davanti a una costante incertezza. Ecco dunque i nodi irrisolti e i principali punti interrogativi, sul futuro della Fiat in Italia, rimasti senza risposta.
Fabbrica Italia - Lanciato nell'aprile del 2010, poco più di due anni fa, il piano di investimenti avrebbe dovuto garantire tra due anni la produzione negli stabilimenti italiani di 1,4 milioni di auto. A oggi ne mancano all'appello circa 900mila, mentre da più parti si contesta al gruppo l'assenza in termini di nuovi modelli.
Il caso Pomigliano - Lo stabilimento campano di FIP (Fabbrica Italia Pomigliano), dove si produce la nuova Panda, è il terreno di scontro principale con la Fiom perché da qui è stata determinata l'uscita di Fiat da Confindustria e sperimentata la nascita di una fabbrica scientificamente costruita senza i metalmeccanici della Cgil. La garanzia di riassunzione di tutti i 5.000 cassintegrati del vecchio stabilimento è scritta nell'accordo con i sindacati, ma non viene rispettata "perché al momento il mercato non lo consente". Restano fuori a oggi circa 2.000 lavoratori.
Termini Imerese - La chiusura dello stabilimento siciliano è avvenuta il 31 dicembre scorso, ma ufficialmente i cassintegrati di Termini Imerese sono ancora dipendenti del Lingotto fino a fine anno. Il programma di rinconversione del polo auto, però, sta segnando il passo e Regione e governo chiedono che la Fiat non si tiri indietro di fronte all'assai probabile fallimento del tentativo dell'imprenditore Di Risio di rilevare la fabbrica siciliana e riassorbire gli operai.
Il futuro di Mirafiori - Il destino dello stabilimento-madre sembra al momento il più incerto. Era stata programmata la riconversione delle linee produttive per ospitare la produzione di un modello Jeep per il mercato europeo. Due giorni fa l'azienda ha annunciato tre settimane di cassa integrazione per 5mila dipendenti, in massima parte impiegati e tecnici e 500 operai. Il polo torinese, poi, teme il possibile trasferimento della sede legale che ritorna periodicamente nei ragionamenti di Sergio Marchionne. Timori efficacemente riassunti oggi da Giorgio Airaudo, responsabile auto per la Fiom, nello scenario di Mirafiori come "un teatro di posa per produzioni fatte altrove".
Il rapporto con i sindacati - Con la Fiom ormai la Fiat parla solo nei tribunali. Sono quasi venti i giudici del lavoro sparsi per l'Italia chiamati a decidere sui ricorsi dei metalmeccanici Cgil contro la violazione dei diritti sindacali e costituzionali nelle fabbriche del gruppo dove, sulla base dello stesso Statuto dei lavoratori, l'azienda nega alla Fiom la possibilità di svolgere attività sindacale e rifiuta di operare le trattenute in busta paga per la quota sindacale degli iscritti Fiom. Ma anche con gli altri sindacati, quelli che hanno accettato di firmare l'accordo di gruppo, il rapporto è meno idilliaco di qualche tempo fa. Fim, Uilm e Fismic hanno appoggiato l'azienda nel chiedere ai lavoratori sacrifici in cambio di prodotti e occupazione. Ora che scarseggiano sia gli uni che l'altra anche i sindacati del sì si preparano a chiedere il conto.
Il dialogo con il governo - Nei mesi scorsi, al termine di un lungo colloquio con Sergio Marchionne, Mario Monti aveva detto che nessuno può costringere un'azienda a rimanere in un territorio. Era un'apertura di credito davanti alle assicurazioni fornite dal manager. Ma oggi praticamente tutte le forze politiche chiedono che Palazzo Chigi convochi la Fiat per avere chiarezza sulle mosse future.
Lo "scontro" con la magistratura - Più della metà dei giudici chiamati a decidere sui ricorsi della Fiom ha dato ragione al sindacato. Ma la giustizia del lavoro si è divisa, tanto che alla fine è stata investita della questione la Corte costituzionale. Sarà dunque la Consulta, probabilmente, a decidere se l'articolo 19 dello Statuto dei lavoratori, come applicato nel gruppo Fiat - con l'esclusione dall'attività sindacale delle sigle che non hanno firmato il contratto di gruppo - contrasti o meno con gli articoli della Costituzione che vietano la discriminazione dei lavoratori sulla base dell'appartenenza a un sindacato. Intanto, però, Fiat ha trovato modo di "aggirare" la sentenza sul caso Melfi, riassumendo i tre licenziati (due delegati Fiom) ma relegandoli in uno stanzino e fuori da ogni attività produttiva; ed ha impugnato il verdetto che imponeva, stavolta a Pomigliano, la riassunzione di 145 lavoratori (tutti iscritti Fiom) minacciando, in caso di esecutività della sentenza, di metterne altrettanti in cassa integrazione o in mobilità.
Le regole "folcloristiche" - Il problema è che, rispetto all'esperienza fatta in Chrysler e negli U.S.A., Marchionne in Italia ha a che fare con una "elasticità" assai minore anche delle leggi in fatto di libertà d'impresa, soprattutto se questa finisce per confliggere con i diritti dei lavoratori. Commentando dalla Cina il verdetto che gli imponeva la riassunzione dei 145 operai Fiom, l'a.d. di Fiat e Chrysler ha annunciato il ricorso parlando di "un evento unico che interessa un particolare paese che ha regole particolari che sono folcloristicamente locali". "Le implicazioni sulla situazione del business in Italia - aveva aggiunto - sono drastiche, perché l'Italia ha un livello di complessità nella gestione del mondo industriale che è assente nelle altre giurisdizioni. Tutto diventa puramente italiano, facendo diventare tutto difficile da gestire". Per questo, secondo Marchionne, non c'è la fila per venire a investire in Italia.
Il nodo della "tranquillità industriale" - "Il problema in Italia - ha detto ancora ieri Sergio Marchionne - è che fino a quando non riusciamo a trovare un accordo per mantenere un livello di tranquillità industriale per produrre vetture e anche per esportarle, diventa difficile guardare agli impianti italiani come risposta al mercato europeo". Cosa vuol dire "tranquillità industriale"? In parte Fiat l'aveva spiegato nella nota in cui annunciava il ricorso contro il verdetto dei 145 (la predominanza delle esigenze del mercato sui diritti dei lavoratori). Ieri il supermanager ne ha dato un'idea citando il recente accordo per la produzione della Vauxhall (GM) in Gran Bretagna: 51 settimane lavorative, tre turni e sabato obbligatorio quando lo richiede il mercato.
(Fonte: www.repubblica.it - 4/7/2012)

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