Capita sempre più spesso che nelle scuole torinesi gli studenti si raccolgano intorno a un loro compagno per salutarlo: tornerà forse tra qualche mese, forse lo rivedranno tra qualche anno. Andrà a vivere in uno dei sobborghi di Detroit, Michigan, perché suo padre o sua madre lavorano per la Fiat. Specialisti in ingegneria e in produzione, si trasferiscono negli U.S.A. e portano il loro sapere alla Chrysler, la casa automobilistica salvata dal gruppo italiano e che ora sta restituendo il favore con gli interessi. Il trasferimento di dirigenti a Detroit è la plastica manifestazione di un profondo cambiamento nel dna della Fiat: sempre più America, sempre meno Europa e sempre meno Italia. Di pochi giorni fa è la notizia che entro fine anno la Fiat Industrial, cioè la parte del gruppo che si occupa di camion con 24 miliardi di fatturato, si fonderà con la CNH (16 miliardi), la società americana che produce trattori e macchine movimento terra. La nuova azienda avrà sede nei Paesi Bassi, sarà quotata a Wall Street e in un altro mercato europeo che però non sarà Milano. È come se una multinazionale lasciasse l’Italia: peccato che si tratti di un pezzo importante della Fiat. Non a caso il suo amministratore Sergio Marchionne si è subito premurato di scrivere ai 19 mila dipendenti in Italia per assicurarli che da un punto di vista produttivo non cambierà nulla. Ma intanto il baricentro si è spostato verso l’America. Scendendo dalle grandi strategie industriali al singolo prodotto, c’è un’altra notizia che mostra il crescente distacco della Fiat dall’Italia, e che avrà fatto venire qualche mal di stomaco ai vecchi alfisti: il nuovo spider Alfa Romeo nascerà dalla collaborazione con la giapponese Mazda. Perfino un ingegnere che fa il consulente per la casa italiana, e che per ovvi motivi vuole rimanere anonimo, alza il sopracciglio e si rammarica: «Alla fine avremo un Duetto, simbolo dello stile italiano, che assomiglierà a una Mazda». Ma questi sono i risultati di una strategia condotta da un uomo che corre come un treno, coglie le opportunità al volo e cita Joseph Schumpeter: la sua è una forza distruttrice. Se conviene unire la CNH all’Iveco, se lo spider lo si produce con chi sa far bene queste vetture, se bisogna andare in America a prendersi il rischio Chrysler o addirittura creare nuove relazioni industriali in Italia scontrandosi con la Confindustria e la Fiom, lo si fa. Un azzardo dietro l’altro, senza avere un soldo dagli azionisti. Distruggendo pratiche consolidate e vecchi sistemi di potere. Uno dei più importanti cacciatori di teste italiani sostiene, anche lui off-record, che Marchionne, dal 2004 alla guida della Fiat, è ancora fermo alla fase uno, quella della ristrutturazione, dell’urgenza e dei ritmi massacranti di lavoro che fanno terra bruciata intorno a lui: manca la fase due, la costruzione di un management forte e di un degno successore «Ha uno stile manageriale distruttivo, non coltiva i talenti» rincara un altro consulente del settore auto. Nel mitico GEC (Group Executive Council), di cui fa parte la prima linea della Fiat, ci sono 25 top manager. Uno di loro potrebbe prendere il posto di Marchionne, ma gli esperti di gestione aziendale non vedono molte personalità cresciute abbastanza: «Tenendo conto dell’età» dice un consulente «sono solo in due che potrebbero giocarsi la partita: Alfredo Altavilla, 49 anni, responsabile dello sviluppo, ottimo negoziatore e “stressatore” di strutture; e Harald Wester, 54 anni, tedesco, capo di Alfa Romeo, Abarth e Maserati, molto dinamico e ambizioso». A 8 anni dall’arrivo alla Fiat, che risultati ha portato Marchionne? Intanto ha più che raddoppiato le dimensioni del gruppo e può vantare un bilancio della Fiat S.p.A. con un utile di 1,7 miliardi. Nel 2004 la Fiat Auto era in rosso, vendeva 1,7 milioni di auto di cui praticamente nessuna negli U.S.A. . Oggi la Fiat S.p.A. vende oltre 4 milioni di vetture di cui la metà in Nord America. «Nel 2004» ricorda Luca Ciferri, Chief Correspondent Europe di Automotive News, «la Fiat poggiava su quattro aree: Europa, Brasile, CNH e Iveco. Le ultime tre, in utile, compensavano il passivo delle attività europee. Nel 2012, dopo lo split della Fiat Industrial, sono venuti meno due pilastri ma si è aggiunta la Chrysler. In sostanza, oggi su 4 milioni di vetture del gruppo circa 2 milioni sono prodotte in Nord America, 800 mila in Brasile. La parte restante, poco più di 1 milione, in Europa che era e resta in sofferenza oggi come nel 2004». Dunque, un gruppo più grande. Che oggi fa il 52 per cento degli utili in America grazie alla straordinaria ripresa della Chrysler, con le vendite che crescono, come è accaduto in maggio, del 30 per cento. Se non ci fosse stata la casa americana, il gruppo avrebbe dovuto contare solo sui profitti brasiliani, visto che in Europa siamo a un risicato pareggio. Il giudizio su Marchionne negli U.S.A. resta molto positivo. Brent Snavely, analista al Detroit Free Press, il quotidiano più importante di Detroit, intervista spesso i sindacati e i dirigenti delle tre big dell’auto U.S.A.: «Pur costretti a turni durissimi, i dirigenti della Chrysler mostrano un sincero rispetto e ammirazione per il boss italo-canadese. Così come i sindacati, che pure hanno dovuto accettare condizioni peggiori rispetto alla Ford o alla General Motors. Ma tutti riconoscono che Marchionne è uno che mantiene quello che promette e che senza di lui la loro azienda sarebbe fallita». Però qualche ombra c’è: la cancellazione di un modello, il Town & Country minivan al posto del Dodge Grand Caravan, viene considerato da alcuni il primo errore del manager venuto dall’Italia. Insieme all’iniziale sopravvalutazione delle vendite della 500 negli U.S.A., ora in forte ripresa. Alle luci che giungono dagli U.S.A. e dal Brasile, dove la Fiat ha una linea di prodotti di successo disegnata per il mercato locale e da dove arriva il 37 per cento degli utili di gruppo, fanno da contrappeso le ombre europee e il vuoto in Asia, dopo la deludente collaborazione con gli indiani della Tata e la perdita del treno cinese. In Europa la Fiat soffre per due ragioni: la decisione di Marchionne di non investire nel lancio di nuove auto, in attesa che la crisi del mercato finisca, e il fatto che il manager non sia un uomo di prodotto, come ripete il designer Giorgetto Giugiaro passato sotto le insegne Volkswagen. Così, a parte la Giulietta, la nuova Panda e l’imminente 500 L, la Fiat non ha presentato alcuna vettura davvero importante. La Punto di nuova generazione è stata ancora rinviata e alcuni dicono che forse una nuova auto del segmento C, come la Bravo, non ci sarà più. Risultato? «Abbiamo una gamma insufficiente con dei prezzi troppo alti» si lamenta il responsabile marketing di uno dei più grandi concessionari Fiat della Lombardia. «La Giulietta, la Panda, la Mito vanno bene, la Freemont viene acquistata soprattutto come auto aziendale, mentre le Lancia derivate dalla Chrysler non si adattano al gusto italiano». I dati di vendita delle grandi Lancia sarebbero imbarazzanti: 486 Thema vendute contro un obiettivo per il 2012 di 10 mila pezzi. E 1.342 Voyager Lancia a fronte di una previsione di 11 mila. Marchionne striglia i responsabili delle vendite, però le quote di mercato in Europa continuano a scendere: ora sono intorno al 6 per cento, tre punti in meno rispetto al 2009. In termini di produzione italiana, i numeri segnalano un netto peggioramento: nel 2004 vennero prodotte in Italia 834 mila vetture. Nel 2011 si è scesi a 485 mila vetture. Per l’anno in corso tutto dipende dai risultati che saprà ottenere la nuova Panda di Pomigliano che, va sottolineato, ha dimostrato la volontà di Marchionne di investire in Italia trasferendo qui una vettura prodotta in Polonia. In teoria la Fiat avrebbe dovuto ridurre la sua capacità produttiva, ma non lo ha fatto: ha chiuso un impianto, Termini Imerese, con una capacità produttiva da 130 mila pezzi, ma ne ha aperto un altro a Kragujevac, in Serbia, da 140 mila vetture, grazie ai forti incentivi pubblici. La capacità produttiva è ancora in eccedenza strutturale. Con l’eccezione di Pomigliano, impianto estremamente flessibile che può produrre vari modelli, in Italia ci sono quattro fabbriche con un potenziale produttivo ciascuna di oltre 200 mila auto, ovvero più del doppio della produzione attuale. È giusto tenere a bagnomaria gli impianti e non lanciare nuovi prodotti quando i concorrenti presentano di tutto, dalle auto ibride a quelle elettriche? Gli esperti ammettono che forse la linea di Marchionne è un po’ estrema. Ma nel pieno di una crisi epocale salvare la cassa invece di buttare soldi al vento non è del tutto sbagliato: i dati trimestrali in Europa dei concorrenti americani (i francesi forniscono solo i semestrali) sono terribili: la Opel della GM perde 256 milioni, la Ford 149 milioni. «E non va dimenticato» aggiunge Giuseppe Berta, docente di storia contemporanea, direttore del Centro di ricerca sull’imprenditorialità e gli imprenditori e autore di quattro libri sulla Fiat, «che la Opel dal 1999 a oggi ha perso 14 miliardi». Con più di metà della produzione negli U.S.A. e un occhio all’Asia alla ricerca di un partner per entrare in Cina, la Fiat ormai ha sempre meno a che fare con l’Italia. E forse è sbagliato continuare a giudicare il manager per i risultati ottenuti in una periferia dell’impero. Anche perché Marchionne, che lascerà il gruppo tra il 2014 e il 2015, ha realizzato qualcosa di inedito: «La General Motors è una multinazionale, ma è americana. La Volkswagen è un’impresa globale, ma è tedesca. Così come la Toyota resta giapponese. La Fiat-Chrysler, invece» dice il professor Berta «sarà la prima casa automobilistica senza una matrice definita». Un’impresa apolide, proprio come Marchionne.
(Fonte: http://economia.panorama.it - 11/6/2012)
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