Attorno a Sergio Marchionne volano troppi corvi e troppe colombe.
Uccellacci e uccellini, entrambi presagi nefasti. Bisogna fare il tifo
perché riesca l’operazione Fiat-Chrysler, un tifo autentico non
puramente scaramantico. Tuttavia, occorre discuterne costi e benefici
non tanto per il super manager o per la famiglia Agnelli, bensì, come è
ovvio, per l’Italia. Ci può aiutare in questo il capitolo dedicato a
Exor (così viene classificato l’intero gruppo del quale fanno parte le
due Fiat e tutto il resto) nell’ultimo rapporto R&S (Mediobanca).
Vediamo alcuni punti essenziali. Il primo dato ci dice che con 287.343 dipendenti, Exor nel 2012 era
di gran lunga l’unico gruppo nazionale con oltre centomila occupati
diretti. Luxottica, il numero due, non arriva a 68 mila. Exor ha un
capitale di 91 miliardi, Luxottica non raggiunge i sette. Dunque, siamo
in presenza dell’ultimo campione nazionale privato, con una taglia
paragonabile a quella dei colossi mondiali. Non è vero che Fiat sia
diventata irrilevante nella economia italiana e nella formazione del
prodotto lordo, al contrario: se scompare, l’intera industria
manifatturiera sarà in mano al quarto capitalismo, come nota Fulvio
Coltorti che è stato fino a ieri il capo dell’ufficio studi Mediobanca e
coordinatore delle indagini di R&S. Il secondo punto chiaro è che nessuna delle due imprese è fuori dai
guai. Il bilancio di Fiat auto ha chiuso il 2012 con una perdita
superiore a 1,3 miliardi di euro. I conti americani sono diversi, ma
Chrysler mostra un patrimonio netto negativo di 7,3 miliardi. Negli U.S.A. è
possibile per un’impresa operare anche con un grande buco patrimoniale,
ricorda Coltorti, il quale nota che “questo sembra uno dei motivi
(forse il più rilevante) per il quale non c’è da sperare che il gruppo
Fiat-Chrysler, a fusione avvenuta, resti con la sede in Italia”. Ciò spiega anche perché Fiat deve mantenere un grande cuscinetto
di liquidità senza il quale non sarebbe in grado non solo di completare
la fusione, ma nemmeno di pagare i debiti: quelli finanziari totali
ammontano a 12,6 miliardi di dollari ed entro quest’anno bisogna pagare
19 miliardi di dollari ai fornitori. Dunque, anche da questo punto di
vista, bisogna valutare la situazione in modo corretto, quando si
critica Marchionne perché mantiene un portafoglio pieno di cash e non
spende il becco di un quattrino. Su questo punto, ha ragione lui, se si
vuole che la nave arrivi in porto. I critici ad ampio raggio (vanno dall’estrema destra all’estrema
sinistra) si dividono in due scuole di pensiero: da una parte chi
sostiene che lo sbarco in America sia stato enfatizzato eccessivamente
(“Nessuno metterà una 500 sulle autostrade degli States”, è l’obiezione
più popolare), dall’altra chi dice che alla fine della fiera sarà
l’Italia a rimetterci (con tutto quel che i contribuenti hanno pagato
nei decenni per sostenere Fiat). I primi sono smentiti dalle cifre del bilancio: il fatturato è salito
da 29 miliardi di dollari del 2009 (contando anche gli 11 miliardi
realizzati dalla “vecchia” Chrysler nel primo semestre) ai 66 miliardi
del 2012 con un risultato netto passato dagli 8 miliardi di perdite nei
12 mesi del 2009 a 1,7 miliardi di utili nel 2012. Anche se “l’utile del
2012 (come il precedente) è stato ottenuto evitando di far passare per
il conto economico 2,9 miliardi di perdite attuariali sui fondi
pensionistici che, diversamente, avrebbero segnato di rosso anche
l’ultimo consuntivo. La perdita americana sarebbe comunque stata
inferiore a quella italiana, di cui non è dato conoscere l’importo a
livello consolidato per mancanza dei documenti contabili”, precisa
ancora Coltorti. Quanto alla seconda obiezione, è vero che tecnologie motoristiche
italiane hanno rinvigorito il marchio americano; la cura Fiat è stata
efficace non solo sul piano contabile, ma anche su quello produttivo. Fiat, prima dell'operazine-Chrysler, non era presente negli Stati
Uniti e aveva pochissime chance di recuperare il tempo perduto in Cina e
le occasioni gettate al vento in India e in Russia, cioè nei mercati
più dinamici di questo decennio. Siamo, così, alla questione di fondo. Scrive Coltorti: “Fiat
fronteggia nel settore auto una situazione che permane critica. Non c’è
che da augurarsi che essa riesca a trovare sul mercato americano i mezzi
per la sua rinascita, possibilmente senza far perdere al sistema Italia
altri pezzi pregiati”. Senza pretese neodirigiste né polemiche
tardostataliste, l’opinione pubblica e i suoi influenti manipolatori
dovrebbero discutere qual è l’interesse nazionale in questa complessa
partita, in modo che Fiat vinca, ma non contro l’Italia. Se è vero
che la tecnologia italiana ha avuto un effetto rinvigorente e che la
gestione all’americana di Marchionne è stata un tonico sia per Fiat sia
per Chrysler, allora il dibattito nei sindacati, tra gli studiosi, nelle
forze politiche e sui giornali, dovrebbe indirizzarsi sul che fare per
mantenere il cervello a Torino e potenziare i muscoli a Detroit.
(Fonte: http://cingolo.it - 12/8/2013)
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