mercoledì 21 agosto 2013

Tifiamo Fiat-Chrysler, non Chrysler-Fiat


Attorno a Sergio Marchionne volano troppi corvi e troppe colombe. Uccellacci e uccellini, entrambi presagi nefasti. Bisogna fare il tifo perché riesca l’operazione Fiat-Chrysler, un tifo autentico non puramente scaramantico. Tuttavia, occorre discuterne costi e benefici non tanto per il super manager o per la famiglia Agnelli, bensì, come è ovvio, per l’Italia. Ci può aiutare in questo il capitolo dedicato a Exor (così viene classificato l’intero gruppo del quale fanno parte le due Fiat e tutto il resto) nell’ultimo rapporto R&S (Mediobanca). Vediamo alcuni punti essenziali. Il primo dato ci dice che con 287.343 dipendenti, Exor nel 2012 era di gran lunga l’unico gruppo nazionale con oltre centomila occupati diretti. Luxottica, il numero due, non arriva a 68 mila. Exor ha un capitale di 91 miliardi, Luxottica non raggiunge i sette. Dunque, siamo in presenza dell’ultimo campione nazionale privato, con una taglia paragonabile a quella dei colossi mondiali. Non è vero che Fiat sia diventata irrilevante nella economia italiana e nella formazione del prodotto lordo, al contrario: se scompare, l’intera industria manifatturiera sarà in mano al quarto capitalismo, come nota Fulvio Coltorti che è stato fino a ieri il capo dell’ufficio studi Mediobanca e coordinatore delle indagini di R&S. Il secondo punto chiaro è che nessuna delle due imprese è fuori dai guai. Il bilancio di Fiat auto ha chiuso il 2012 con una perdita superiore a 1,3 miliardi di euro. I conti americani sono diversi, ma Chrysler mostra un patrimonio netto negativo di 7,3 miliardi. Negli U.S.A. è possibile per un’impresa operare anche con un grande buco patrimoniale, ricorda Coltorti, il quale nota che “questo sembra uno dei motivi (forse il più rilevante) per il quale non c’è da sperare che il gruppo Fiat-Chrysler, a fusione avvenuta, resti con la sede in Italia”. Ciò spiega anche perché Fiat deve mantenere un grande cuscinetto di liquidità senza il quale non sarebbe in grado non solo di completare la fusione, ma nemmeno di pagare i debiti: quelli finanziari totali ammontano a 12,6 miliardi di dollari ed entro quest’anno bisogna pagare 19 miliardi di dollari ai fornitori. Dunque, anche da questo punto di vista, bisogna valutare la situazione in modo corretto, quando si critica Marchionne perché mantiene un portafoglio pieno di cash e non spende il becco di un quattrino. Su questo punto, ha ragione lui, se si vuole che la nave arrivi in porto. I critici ad ampio raggio (vanno dall’estrema destra all’estrema sinistra) si dividono in due scuole di pensiero: da una parte chi sostiene che lo sbarco in America sia stato enfatizzato eccessivamente (“Nessuno metterà una 500 sulle autostrade degli States”, è l’obiezione più popolare), dall’altra chi dice che alla fine della fiera sarà l’Italia a rimetterci (con tutto quel che i contribuenti hanno pagato nei decenni per sostenere Fiat). I primi sono smentiti dalle cifre del bilancio: il fatturato è salito da 29 miliardi di dollari del 2009 (contando anche gli 11 miliardi realizzati dalla “vecchia” Chrysler nel primo semestre) ai 66 miliardi del 2012 con un risultato netto passato dagli 8 miliardi di perdite nei 12 mesi del 2009 a 1,7 miliardi di utili nel 2012. Anche se “l’utile del 2012 (come il precedente) è stato ottenuto evitando di far passare per il conto economico 2,9 miliardi di perdite attuariali sui fondi pensionistici che, diversamente, avrebbero segnato di rosso anche l’ultimo consuntivo. La perdita americana sarebbe comunque stata inferiore a quella italiana, di cui non è dato conoscere l’importo a livello consolidato per mancanza dei documenti contabili”, precisa ancora Coltorti. Quanto alla seconda obiezione, è vero che tecnologie motoristiche italiane hanno rinvigorito il marchio americano; la cura Fiat è stata efficace non solo sul piano contabile, ma anche su quello produttivo. Fiat, prima dell'operazine-Chrysler, non era presente negli Stati Uniti e aveva pochissime chance di recuperare il tempo perduto in Cina e le occasioni gettate al vento in India e in Russia, cioè nei mercati più dinamici di questo decennio. Siamo, così, alla questione di fondo. Scrive Coltorti: “Fiat fronteggia nel settore auto una situazione che permane critica. Non c’è che da augurarsi che essa riesca a trovare sul mercato americano i mezzi per la sua rinascita, possibilmente senza far perdere al sistema Italia altri pezzi pregiati”. Senza pretese neodirigiste né polemiche tardostataliste, l’opinione pubblica e i suoi influenti manipolatori dovrebbero discutere qual è l’interesse nazionale in questa complessa partita, in modo che Fiat vinca, ma non contro l’Italia. Se è vero che la tecnologia italiana ha avuto un effetto rinvigorente e che la gestione all’americana di Marchionne è stata un tonico sia per Fiat sia per Chrysler, allora il dibattito nei sindacati, tra gli studiosi, nelle forze politiche e sui giornali, dovrebbe indirizzarsi sul che fare per mantenere il cervello a Torino e potenziare i muscoli a Detroit.
(Fonte: http://cingolo.it - 12/8/2013)

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