domenica 12 giugno 2011

Detroit, la rinascita low-cost


Dite a un americano che avete intenzione di visitare Detroit e riceverete in cambio uno sguardo accigliato, seguito dalla lista dei motivi per cui non ha mai messo piede nell'ex capitale dell'auto: il 70 per cento dei crimini impuniti, il 29 per cento di disoccupati, l'analfabetismo al 40 per cento. E la città, passata dai due milioni di abitanti del 1950 agli 800mila odierni, ridotta a una sorta di Pompei contemporanea. Ma se i turisti di tutto il mondo fanno la fila davanti a Pompei, quella vera, una ragione ci sarà. Proprio questa condizione estraniante ha finito, oggi, per dare nuova linfa, anche turistica, a questa incredibile città. Qui trovi un'energia urbana sconosciuta nel resto d'America. Così i figli di chi se n'è andato, trent'anni fa, tornano a popolare il centro. Qui arrivano artisti in cerca di fortuna da tutto il mondo. Vivono con quasi niente in loft che altrove costerebbero una fortuna. Affittando studi a tre dollari al metro quadro in spazi industriali come il Russell Centre. Una fabbrica dove si costruirono carrozze, poi carrozzerie e perfino ali per i B-29. Abbandonata, divenne il labirinto dove si allenavano le squadre speciali della polizia. Oggi è il cuore creativo della città: con almeno tremila artisti che lo animano. Ma ribaltare un'immagine consolidata non è facile. Così per annunciare la sua rinascita, con la ripresa delle "Big Three" - la General Motors miracolata da Obama, la Ford rinata dalle sue ceneri e la Chrysler rilanciata da Fiat - la città ha scomodato addirittura Eminem: uno dei tanti maledetti e di successo (come Iggy Pop, come Madonna) nati qui. Il rapper è diventato il testimonial dello spot più visto d'America, quello che la Chrysler ha presentato durante il SuperBowl. Inno alla nuova auto, certo, ma anche della ripresa di una città che solo tre anni fa era data per spacciata. La più vuota d'America, secondo la lista Forbes 2009. Destinata a sparire dalle mappe a dispetto del passato glorioso. Formidabili quegli anni Venti. Quando Detroit era la culla di una tecnologia, quella dell'auto, che avrebbe trasformato il mondo. Qui c'era lavoro per tutti. Il benessere era ostentato in edifici firmati da grandi architetti, da Albert Khan a Mies van der Rohe. E la città, sviluppata a misura d'automobile, era attraversata da enormi viali a sei corsie. Fu proprio quel benessere che attirava gente da tutta l'America a segnarne il destino. La città dove nel 1957 il nero Barry Gordy fondò Motown, l'etichetta che lanciò Stevie Wonder e i Jackson Five, divenne crogiuolo di tensioni razziali. Sfociate in quella rivolta dei neri del 1967 che fece quarantatre morti e convinse parte della popolazione bianca a spingersi nei sobborghi. Non basta. Quella che era City of Homeowners, la città dei proprietari, con la crisi dei mutui è diventata capitale degli insolventi. Il 30 per cento degli edifici sono stati pignorati, poi abbandonati. E la città trasformata in scenario post atomico. Oggi basta salire sul Detroit People Mover, il tram sopraelevato, per rendersene conto. Lì ecco quel che resta del Michigan Theatre dalle volte déco, oggi trasformato in garage. Più avanti le rovine imponenti dell'Ymca disegnata da Albert Khan. E ancora, il Cass Technical High School, la scuola che ebbe fra i suoi studenti personaggi come Diana Ross e Jack White. Ma la città resiste. E fra le rovine si aprono anche tanti locali, hotel, gallerie d'arte. Insomma Detroit resta un crocevia di contraddizioni. Basta percorrere Woodward Avenue, l'arteria principale per cambiare scenario dozzine di volte. E non solo perché la città è divisa in piccole enclave, per cui passi dal Messico alla Cina, dalla Grecia alla Polonia, così fino a Deaborn, la città più islamica d'America a ovest di Detroit, che pure ha festeggiato con caroselli in strada la morte di Bin Laden. La zona più vivace è quella universitaria. Qui ci sono i caffè, le librerie, le gallerie d'arte. E il Mocad, il Museo d'arte contemporanea vero gioiello della città. Poi la luce si alterna al buio degli edifici sventrati. Quelli di Downtown. E quelli di Indian Village, un tempo ricco quartiere dove vivevano i Ford. Alle sue spalle c'è uno dei luoghi più significativi di Detroit oggi: l'Heidelberg Project, l'installazione in progress creata dell'artista Tyree Guyton per denunciare lo svuotamento di Heidelberg Street, la strada dov'è nato. Tutto ciò che la gente si è lasciata indietro è stata trasformata in opera: mobili, foto, scarpe. Le case stesse. Sì, allo sfacelo Detroit ha sempre cercato di rispondere creativamente. E anche al sindaco David Bing non resta che una soluzione visionaria: restringere la città. Abbattere le case vuote e raggruppare gli abitanti. Trasformando le lande desolate in fattorie. Ce ne sono già tantissime: una sorta di economia autoctona. Così l'Eastern Market, mercato di prodotti locali è oggi uno degli appuntamenti più vivaci della città. Comincia qui il sabato di Detroit: la città che visse due volte e - tra un rap e uno spot d'auto - non ha ancora finito di stupire.
(Fonte: http://viaggi.repubblica.it - 8/6/2011)

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