Sergio Marchionne ha affermato che l'Italia deve cambiare atteggiamento nei confronti di Fiat Auto. L'Italia dovrebbe diventare più comprensiva nei confronti delle sue strategie. Più aperta al nuovo che esse rappresentano in tema di relazioni industriali e di piani produttivi. Da ciò si dovrebbe anzitutto dedurre che i suoi uffici gli passano da tempo una rassegna stampa largamente incompleta. Una pur rapida scorsa agli articoli pubblicati nell'ultimo anno o due, alle dichiarazioni dei politici, ai comportamenti di due dei maggiori sindacati su tre, porta a concludere che nove articoli su dieci dei maggiori quotidiani, quattro quinti degli accademici, l'intero governo, e perfino gran parte dei politici di opposizione si sono espressi con fervore dalla parte delle strategie di Fiat. Tutti d'accordo: chi critica Fiat si oppone al nuovo che avanza, ai dettami della globalizzazione, allo sviluppo industriale del paese. Quel che vuole l'ad più noto al mondo tra i costruttori d'auto (pochissimi tra il pubblico sanno chi sia l'ad di Volkswagen, del gruppo Peugeot-Citroen, di Ford, ma tutti sanno chi è il grande comunicatore a capo della Fiat-Chrysler) non è dunque un atteggiamento più favorevole del Paese: vuole semplicemente che nessuno lo critichi. Ora, dato che nessuno fa nulla per niente, si potrebbe chiedere a Sergio Marchionne che cosa sia lui disposto a fare affinché la minoranza che non lo applaude come invece fanno gli americani e la maggioranza dei commentatori italiani cambi atteggiamento. Tra le tante, vengono in mente due o tre cose. Marchionne dovrebbe riconoscere in primo luogo che lo sviluppo del diritto del lavoro, ovvero dei diritti personali dei lavoratori ha rappresentato in Italia tra gli Anni '60 e l' inizio degli Anni '80, per milioni di persone, la porta di accesso a un mondo dove anche il più povero, il meno istruito, il più sprovvisto di mezzi, aveva diritto ad essere trattato come persona, poteva con i compagni levare la voce per migliorare la propria condizione, non era più soggetto agli umori ed agli arbitri dei caporali che con un cenno di mano reclutavano all'alba, oppure no, i braccianti a giornata. Questo salto da un mondo dove uno non contava niente a uno in cui, attraverso i sindacati da un lato, e la legislazione del lavoro dall'altro, uno sentiva di contare qualcosa, è stato più ampio e significativo in Italia che non in altri paesi europei i quali o non avevano visto interrotta da una dittatura la crescita del movimento sindacale, come in Gran Bretagna e in Francia, oppure si erano trovati subito dopo la guerra con una legislazione imposta dai vincitori che assegnava notevole peso politico ed economico al sindacato, come in Germania. Un elemento essenziale di tale salto in avanti e all'insù nella scala dei diritti è stata, in Italia, la libertà di associazione sindacale e di contrattazione collettiva. Appunto quella che il piano di Pomigliano prima e quello di Mirafiori dopo appaiono voler eliminare alla radice. In questa prospettiva il confronto che tanto la Fiat quanto i suoi sostenitori propongono con le relazioni industriali in U.S.A. è del tutto privo di senso. Per tre ragioni concomitanti: sia la legislazione che la giurisprudenza americane sono molto più arretrate di quelle dell'Europa occidentale; i sindacati hanno subìto, a causa delle politiche neoliberali da Reagan in poi, sconfitte catastrofiche; infine si trovano addosso il peso enorme delle pensioni e della sanità privata su basi aziendali, per salvare le quali debbono accettare qualunque compromesso al ribasso. Come hanno dovuto fare i sindacati della Chrysler. In secondo luogo, chi si permette di non festeggiare ogni mossa della Fiat potrebbe cambiare atteggiamento se l'ad si disponesse finalmente a diradare la coltre di nebbia che fino ad oggi grava sul piano chiamato Fabbrica Italia. Con le sue 650.000 unità prodotte in patria nel 2010 l'Italia, come costruttore di auto, è stata ormai sopravanzata non solo da Germania e Francia, ma anche da Spagna, Regno Unito, Polonia e perfino dalla Repubblica Ceca e dalla Serbia. Stando al piano sopra indicato, nel 2014 la Fiat dovrebbe tornare a produrre nel nostro Paese oltre un milione e mezzo di vetture. Ma dove, come e con quali catene di fornitura dei diversi livelli? Tre quarti di un'auto sono costruiti fuori dagli stabilimenti in cui si effettua l'assemblaggio finale. Davvero uno può credere che Mirafiori, che oggi lavora una settimana al mese quando va bene, sarà definitivamente rilanciato assemblando grossi SUV progettati e costruiti in gran parte in U.S.A.? O che negli stabilimenti della ex Bertone, nel Torinese, saranno prodotte 50.000 Maserati, bellissime auto da 130.000 euro al pezzo, una quantità dieci volte superiore a quelle che si vendono attualmente? O, ancora, che Pomigliano ritornerà anch'essa a nuova vita producendo un modello di utilitaria ormai vecchiotto, che costa molto meno produrre in Polonia o in Brasile? Ecco, se in merito a questo paio di punti l'atteggiamento della Fiat cambiasse, smettendo di presentare un balzo all'indietro in tema di libertà sindacali come il nuovo che avanza e fornendo indicazioni realistiche su ciò che progetta di fare quanto a organizzazione complessiva delle sue produzioni, compreso il centralissimo capitolo della fornitura, anche coloro che per ora hanno più di una perplessità - sia sul salto all'indietro che essa propone nel campo delle relazioni industriali, sia sul nebuloso piano Fabbrica Italia - potrebbero cambiare atteggiamento.
(Fonte: www.repubblica.it - 5/6/2011)
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Per un approfondimento più informato propongo la lettura di "Marchionne-Marcegaglia, c’è un giudice che incaglia" su Chicago-Blog.it. Buona lettura
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