sabato 12 marzo 2011

Giuseppe Berta (1): nel modello U.S.A. più fatti che diritti


Sembra persino paradossale che, nelle settimane passate, quando si parlava in continuazione di contrattazione collettiva, di turni e di pause di riposo e anche di modelli sindacali, non ci sia stato quasi nessun tentativo di mettere a paragone le esperienze negoziali concrete dell'industria dell'automobile. Si è discusso a non finire di diritti e di condizioni dei lavoratori, trascurando tuttavia di considerare la struttura degli accordi sindacali e quanto essi ci dicono delle forme effettive di esercizio della tutela sul luogo di produzione. Eppure, anche un raffronto sommario può dare indicazioni significative sulle relazioni fra imprese, sindacato e lavoratori e sullo spazio di trattativa che si delinea nell'applicazione delle regole sulla prestazione di lavoro. Un'analisi dell'accordo siglato fra la Chrysler e la United Automobile of America nell'aprile 2009, contestuale alla definizione dell'alleanza con la Fiat, è illuminante per la distanza che rivela fra le relazioni industriali negli Stati Uniti e in Italia. Inevitabilmente, l'attenzione è condizionata dalla controversia sui punti di attrito maggiore che si è scatenata prima e dopo l'accordo Fiat del 23 dicembre scorso. Anzitutto le pause, un terreno di scontro cruciale: nell'intesa Chrysler alla questione sono dedicate in tutto otto righe. In esse ci si limita a specificare che le pause sono calcolate in ragione di cinque minuti ogni ora lavorativa per ogni operaio dislocato sulla linea di montaggio, mentre i minuti scendono a tre ogni ora per i lavoratori indiretti. Non si aggiunge null'altro, così come si dice ancora meno per gli straordinari, stabilendo che saranno riconosciuti al termine del completamento delle 40 ore settimanali di lavoro. Un buon conoscitore dei contratti di lavoro italiani stenterà a ritrovarsi nelle lasche prescrizioni del general settlement Chrysler-Uaw. L'impressione è di essere dinanzi a linee-guida estremamente generali, con una flessibilità applicativa demandata a ogni singolo impianto produttivo. Temi che fanno parte della tradizione sindacale di fabbrica come l'organizzazione del lavoro ricevono pochi cenni, giusto qualche rinvio al Word Class Manufacturing come al paradigma di riferimento per un assetto produttivo in evoluzione. Vale certamente la considerazione che il contratto americano del 2009 è concepito per sottrazione rispetto al precedente del 2007, con declaratorie relative a tutto ciò che i lavoratori perdono rispetto a un passato ben più generoso, che siano in gioco i livelli retributivi (con un salario d'ingresso che penalizza fortemente i nuovi operai) o il complesso sistema di benefit di cui usufruiva il mondo del lavoro di Detroit da oltre mezzo secolo. La riduzione delle prestazioni sanitarie per i dipendenti della Chrysler è minuziosamente dettagliata, fino alla cancellazione del pagamento di farmaci come il Viagra e il Cialis. Da una lettura d'insieme dell'accordo si trae l'idea che esso costituisca, da un lato, uno strumento di sopravvivenza per un'impresa a rischio e, dall'altro, un segnale di un passaggio di fase, in cui la tutela sindacale ripiega, ma in attesa di ridefinirsi in futuro, non appena le condizioni del settore lo permetteranno. Ciò vale ovviamente per la negoziazione salariale, che la Uaw intende rilanciare non appena possibile. Ma è chiaro che non tutto potrà essere recuperato, a cominciare dai generosi trattamenti sanitari e previdenziali, risalenti al tempo in cui il "contratto di Detroit" era un patto leonino tra contraenti ben consapevoli della loro forza. Anche a quell'epoca, tuttavia, il sindacato non entrava direttamente sui nodi dell'organizzazione del lavoro. Perché la Uaw vi aveva rinunciato di fatto da quando era stata sconfitta nel primo grande sciopero nell'immediato dopoguerra per il principio del controllo sindacale, in cambio di una crescita incrementale dei salari e dei sistemi aziendali di previdenza e di assistenza sanitaria. Ma anche perché il pragmatismo del sindacalismo americano considera le regole sulla prestazione di lavoro come un processo di aggiustamento continuo, che si realizza nel vivo dei problemi di fabbrica. È una visione lontana da quella italiana, dove invece si tende a una normativa articolata e puntuale. Quest'ultima, comunque, non può estinguere il grado di discrezionalità che si esercita all'interno di un flusso di lavoro in movimento, dove le prescrizioni formali non possono mai coincidere con l'assetto sociale della produzione. La prospettiva del contratto Chrysler del 2009 rientra già nella logica della ricerca della partnership fra impresa e sindacato verso cui si è orientata in seguito la Uaw. Ma lascia capire che per fronteggiare il cambiamento nelle fabbriche occorre un'autorevolezza dell'organizzazione sindacale incompatibile con un'eccessiva frammentazione delle rappresentanze o almeno con una loro strutturale debolezza sul piano delle decisioni.
(Fonte: www.ilsole24ore.com - 25/1/2011)

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