sabato 26 marzo 2011

Fiat, 3 manovre per sopravvivere a Volkswagen e General Motors


Ci sono tre cose che tutte le case automobilistiche del mondo stanno facendo o stanno cercando di fare in questo momento. La prima è cercare di fare veicoli il più possibile uguali, ma che non sembrino tali agli occhi dei clienti. La seconda è essere presenti nei mercati che crescono. La terza è ottenere soldi pubblici, finanziamenti, aiuti, sovvenzioni. Da Fiat a Volkswagen, da BMW a Peugeot, da GM a Mercedes, l’agenda dei numeri uno delle aziende del settore porta scritta più o meno la stessa lista di obiettivi. C’è chi è più avanti, chi meno. Ma il programma è sempre lo stesso. Cominciano dal primo punto. Le vere economie di scala si fanno mettendo in comune più componenti possibili. Anzi, l’ideale sarebbe costruire un solo modello come la famosa Ford T del 1908, ma purtroppo non funziona dal punto di vista del marketing. I clienti hanno la propria personalità o, per dirla come gli esperti, ogni brand e ogni singola auto ha un portato emotivo che condiziona la vendita. Allora, la soluzione è una sola: un vestito diverso e il maggior numero di componenti (meccanici, elettrici o strutturali) assolutamente identici. Non svelo nessun mistero se scrivo che una Panda e una 500 Fiat non sono così differenti come appaiono. O che tutte le vetture medie del gruppo Volkswagen (Seat, Skoda e persino Audi) sono cloni più o meno riusciti della Golf, l’ultimo o penultimo modello. Un’altra strategia è quella di Lancia-Chrysler, con un modello identico in ognuna delle due sponde dell’Oceano, ma che col marchio americano si chiama 200C, mentre con quello italiano si chiamerà Flavia. Anche qui la logica è la stessa ed è obbligatorio seguirla, perché la metà delle vendite mondiali avvengono su mercati maturi dove la competizione è al coltello, i margini di guadagno risicati e le occasioni di vendita limitate. In altre parole, non è facile vendere un’auto nuova a chi non ne ha bisogno e i potenziali clienti sono proporzionalmente così rari e informati che la battaglia che si scatena tra le varie marche incide in maniera negativa sul prezzo di vendita e quindi sui margini. I costruttori automobilistici che in queste settimane sciorinano dati di bilancio con fatturato e guadagni in crescita non stanno facendo i “numeri” sui mercati tradizionali. I veri affari si fanno solo sui mercati emergenti: lo sa bene Fiat, i cui risultati sono stati sostenuti dal mercato brasiliano, così come lo sa Volkswagen, che ha tre joint venture in Cina, e come lo sa General Motors, la cui rinascita è in larga parte dovuta al flusso di denaro fresco che arriva dalle vendite cinesi. Il futuro delle aziende automobilistiche si gioca sui mercati emergenti. O meglio: chi lì non c’è, non ha futuro. Sudamerica, ma soprattutto Cina, Russia e anche il Maghreb, il Sudafrica, l’estremo oriente, Vietnam e Cambogia. Su questi mercati è la domanda che traina l’offerta, ovvero si fa fatica a costruire abbastanza auto quante i clienti ne richiedono. Inoltre, e non è una questione da poco, la scarsa cultura automobilistica rende il compratore non particolarmente attento alla qualità, alle finiture, all’innovazione tecnologica. Le auto non sono, nella maggior parte dei casi, quelle a cui siamo abituati in Europa, mentre i prezzi sono più o meno gli stessi. E per questo i margini sono maggiori. Nei mercati maturi, invece, ci sarebbe bisogno di un vero salto tecnologico per convincere un po’ tutti a cambiare auto. L’auto elettrica è l’ipotesi che in questo momento va per la maggiore e sono già in campo strategie raffinatissime per dimostrare a tutti che siamo a un passo dal traguardo di un’auto che non ha bisogno di bruciare combustibili fossili. Purtroppo non è ancora vero. O meglio, l’auto elettrica va bene solo in città se si fanno poche decine di chilometri al giorno. Nei percorsi misti e in autostrada non ha autonomia sufficiente. Ma resta un ottimo modo per ottenere finanziamenti pubblici che più o meno tutti i Paesi stanno elargendo ai costruttori che hanno stabilimenti sul proprio territorio. Le stesse fabbriche che, tra l’altro, sono state in larga parte finanziate da soldi pubblici, statali o regionali, oppure attirate con la promessa di incentivi fiscali o produttivi. Tutti i costruttori del mondo hanno scelto di localizzare un nuovo stabilimento o hanno deciso di ingrandire il proprio sito produttivo solo dopo aver valutato con attenzione i vantaggi economi offerti dalle amministrazioni pubbliche. Volkswagen in Russia, Renault-Nissan in Sudafrica, BMW in South Carolina. E non solo Fiat in Serbia.
(Fonte: www.ilsussidiario.net - 17/2/2011)

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