Progetti targati Marchionne. Se ne parla da tanto tempo. L'ammistratore delegato di Fiat ha due obiettivi: la fusione con la Chrysler e il cambio delle produzioni. La novità sta nei tempi di realizzazione indicati, vale a dire entro il 1° giugno 2014. Si tratta di una corsa contro il tempo, di un’impresa impossibile o di un percorso tranquillamente percorribile? L'abbiamo chiesto a un esperto del settore, Marco Saltalamacchia, consulente strategico ed esperto del settore automotive.
Ce la farà secondo lei Marchionne a rispettare i tempi?
Per quanto riguarda la fusione societaria sotto il profilo strettamente finanziario e azionario è certamente possibile e anche necessario. Ricordiamo che Marchionne deve ancora risolvere il problema della liquidazione dello scomodo socio azionista Veba.
Per quanto riguarda, invece, il cambio di produzione?
Sotto il profilo industriale mi sembra molto meno realistico, perché i processi di integrazione industriali hanno orizzonti temporali molto più lunghi. Basti guardare al lavoro di integrazione tra Renault e Nissan, iniziato dieci anni fa, che sta per compiersi solo adesso.
Ci dobbiamo immaginare tempi lunghi quindi?
Sì, considerando che il tempo di rinnovo di una singola piattaforma non è mai inferiore ai 4 o 5 anni, prima che tutte le piattaforme possano essere integrate. Con un orizzonte così breve non è immaginabile, a meno che non si tratta di promuovere con un badge diverso dei prodotti su piattaforme Chrysler o viceversa - abbiamo visto qualcosa di simile con la Chrysler 300 e la Lancia Thema. Se con quello definiamo il trasferimento di produzioni allora si può realizzare, se, invece, parliamo di vere e proprie integrazioni di piattaforme i tempi si allungano. Nella precedente gestione Chrysler con Daimler non erano arrivati sostanzialmente, dopo circa 8 anni, all’integrazione delle piattaforme, ma avevano semplicemente sviluppato alcune sinergie a livello di componentistica.
Secondo lei, spostare la produzioni di utilitarie nell’est Europa può funzionare?
Spostare la produzione di vetture a basso valore unitario in mercati a più basso costo è la tendenza generale. Va aggiunto, però, che questo non significa solo spostarsi nelle aree a basso costo, ma presidiarie le aree di mercato rilevanti per la marca.
In che modo?
Toyota, ad esempio, è un marchio globale e la sua globalità la si misura nel fatto che è presente commercialmente nelle aree rilevanti del mondo (nord America, Europa, sud est asiatico), ma è anche presente nelle medesime aree attraverso installazioni produttive e questo permette in una logica di lungo termine di proteggere la casa produttrice da fluttuazione legate, per esempio alle valute e alla domanda di mercato.
Può fare un esempio?
Se in assoluto produrre nell’est Europa può essere vantaggioso rispetto all’Italia, siamo comunque nell’area euro. Questo porterebbe a dire che se Chrysler e Fiat diventano una società che opera almeno in due delle tre aree mondiali (Europa e Nord America) sarà necessario che si doti di eguali capacità produttive su modelli che condividono la medesima piattaforma anche negli Stati Uniti, in modo che quanto meno la società sia protetta a lungo termine sulle svalutazioni tra dollaro e euro.
Quale sarà il destino degli stabilimenti Fiat in Italia?
Devono servire principalmente, almeno per quanto riguarda il marchio Fiat, l’area euro. Non è immaginabile, attraverso stabilimenti in area euro servire mercati del Nord America o del sud est asiatico. Per la struttura dei costi che si ha in Europa, che si sia in Polonia o Italia, questo non è possibile.
Fiat vorrebbe produrre in Italia modelli di alta gamma...
Potrebbe avere senso, ma è certamente un lavoro di grandissima riorganizzazione. Resta il fatto che i soli che hanno stabilimenti in Europa che servono mercati non europei sono i tedeschi, Bmw e Audi, e anche loro, però, hanno stabilimenti fuori dall’area euro. C’è da aggiungere che prima di arrivare a questa fase hanno servito le aree del mondo partendo dall’Europa.
Fiat potrebbe replicare questo modello?
Questo è possibile se il prodotto è di fascia alta, e quindi il prezzo medio è normalmente il triplo rispetto al prodotto di gamma generalista. E per farlo serve che il prodotto abbia un mercato, perché le fabbriche dovrebbero essere in grado di sostenere volumi di produzione di quel segmento alto. È un obiettivo ambizioso. Il tema non è solo lo sviluppo tecnologico di piattaforme, ma anche lo sviluppo della credibilità dei marchi. Il mercato è affollato, è un segmento altamente competitivo. Servono, quindi, investimenti sia sul prodotto sia sul brand.
Marchionne sembra puntare sul made in Italy...
Puntare sul made in Italy va bene se parliamo di moda o prodotti enogastronomici. È vero che il made in Italy nell’automobile ha certamente una sua storia, specie in vetture di nicchia o di lusso(Ferrari, Lamborghini). In effetti non è un mistero che Marchionne pensi a Maserati come un cavallo di battaglia per la crescita nei volumi. Certo, Maserati può avere la forza del brand ma non basta, occorrono anche consistenti investimenti. La fusione di Chrysler dovrebbe generare quei capitali che a partire da quel momento potrebbero permettere di finanziare una strategia così ambiziosa e a lungo termine.
Se la fusione ci sarà la sede rimarrà a Torino oppure verrà trasferita a Detroit?
Bisognerà chiederlo ai nuovi azionisti, ma immagino che la fusione sia preliminare a una quotazione a New York. Se il cuore finanziario dell’azienda si sposta negli Stati Uniti trasferire la sede è una possibilità non così remota. I tedeschi, per esempio, dirigono molto bene il mercato americano senza bisogno di spostarsi da Monaco o da Stoccarda. È tutto possibile. Dipenderà molto dalle evoluzioni della compagine azionaria che potrebbe guidare Fiat.
Ce la farà secondo lei Marchionne a rispettare i tempi?
Per quanto riguarda la fusione societaria sotto il profilo strettamente finanziario e azionario è certamente possibile e anche necessario. Ricordiamo che Marchionne deve ancora risolvere il problema della liquidazione dello scomodo socio azionista Veba.
Per quanto riguarda, invece, il cambio di produzione?
Sotto il profilo industriale mi sembra molto meno realistico, perché i processi di integrazione industriali hanno orizzonti temporali molto più lunghi. Basti guardare al lavoro di integrazione tra Renault e Nissan, iniziato dieci anni fa, che sta per compiersi solo adesso.
Ci dobbiamo immaginare tempi lunghi quindi?
Sì, considerando che il tempo di rinnovo di una singola piattaforma non è mai inferiore ai 4 o 5 anni, prima che tutte le piattaforme possano essere integrate. Con un orizzonte così breve non è immaginabile, a meno che non si tratta di promuovere con un badge diverso dei prodotti su piattaforme Chrysler o viceversa - abbiamo visto qualcosa di simile con la Chrysler 300 e la Lancia Thema. Se con quello definiamo il trasferimento di produzioni allora si può realizzare, se, invece, parliamo di vere e proprie integrazioni di piattaforme i tempi si allungano. Nella precedente gestione Chrysler con Daimler non erano arrivati sostanzialmente, dopo circa 8 anni, all’integrazione delle piattaforme, ma avevano semplicemente sviluppato alcune sinergie a livello di componentistica.
Secondo lei, spostare la produzioni di utilitarie nell’est Europa può funzionare?
Spostare la produzione di vetture a basso valore unitario in mercati a più basso costo è la tendenza generale. Va aggiunto, però, che questo non significa solo spostarsi nelle aree a basso costo, ma presidiarie le aree di mercato rilevanti per la marca.
In che modo?
Toyota, ad esempio, è un marchio globale e la sua globalità la si misura nel fatto che è presente commercialmente nelle aree rilevanti del mondo (nord America, Europa, sud est asiatico), ma è anche presente nelle medesime aree attraverso installazioni produttive e questo permette in una logica di lungo termine di proteggere la casa produttrice da fluttuazione legate, per esempio alle valute e alla domanda di mercato.
Può fare un esempio?
Se in assoluto produrre nell’est Europa può essere vantaggioso rispetto all’Italia, siamo comunque nell’area euro. Questo porterebbe a dire che se Chrysler e Fiat diventano una società che opera almeno in due delle tre aree mondiali (Europa e Nord America) sarà necessario che si doti di eguali capacità produttive su modelli che condividono la medesima piattaforma anche negli Stati Uniti, in modo che quanto meno la società sia protetta a lungo termine sulle svalutazioni tra dollaro e euro.
Quale sarà il destino degli stabilimenti Fiat in Italia?
Devono servire principalmente, almeno per quanto riguarda il marchio Fiat, l’area euro. Non è immaginabile, attraverso stabilimenti in area euro servire mercati del Nord America o del sud est asiatico. Per la struttura dei costi che si ha in Europa, che si sia in Polonia o Italia, questo non è possibile.
Fiat vorrebbe produrre in Italia modelli di alta gamma...
Potrebbe avere senso, ma è certamente un lavoro di grandissima riorganizzazione. Resta il fatto che i soli che hanno stabilimenti in Europa che servono mercati non europei sono i tedeschi, Bmw e Audi, e anche loro, però, hanno stabilimenti fuori dall’area euro. C’è da aggiungere che prima di arrivare a questa fase hanno servito le aree del mondo partendo dall’Europa.
Fiat potrebbe replicare questo modello?
Questo è possibile se il prodotto è di fascia alta, e quindi il prezzo medio è normalmente il triplo rispetto al prodotto di gamma generalista. E per farlo serve che il prodotto abbia un mercato, perché le fabbriche dovrebbero essere in grado di sostenere volumi di produzione di quel segmento alto. È un obiettivo ambizioso. Il tema non è solo lo sviluppo tecnologico di piattaforme, ma anche lo sviluppo della credibilità dei marchi. Il mercato è affollato, è un segmento altamente competitivo. Servono, quindi, investimenti sia sul prodotto sia sul brand.
Marchionne sembra puntare sul made in Italy...
Puntare sul made in Italy va bene se parliamo di moda o prodotti enogastronomici. È vero che il made in Italy nell’automobile ha certamente una sua storia, specie in vetture di nicchia o di lusso(Ferrari, Lamborghini). In effetti non è un mistero che Marchionne pensi a Maserati come un cavallo di battaglia per la crescita nei volumi. Certo, Maserati può avere la forza del brand ma non basta, occorrono anche consistenti investimenti. La fusione di Chrysler dovrebbe generare quei capitali che a partire da quel momento potrebbero permettere di finanziare una strategia così ambiziosa e a lungo termine.
Se la fusione ci sarà la sede rimarrà a Torino oppure verrà trasferita a Detroit?
Bisognerà chiederlo ai nuovi azionisti, ma immagino che la fusione sia preliminare a una quotazione a New York. Se il cuore finanziario dell’azienda si sposta negli Stati Uniti trasferire la sede è una possibilità non così remota. I tedeschi, per esempio, dirigono molto bene il mercato americano senza bisogno di spostarsi da Monaco o da Stoccarda. È tutto possibile. Dipenderà molto dalle evoluzioni della compagine azionaria che potrebbe guidare Fiat.
(Fonte: www.ilsussidiario.net - 25/3/2013)
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