A scorrere da molte miglia di distanza qui in California le notizie italiane, mi è venuto da pensare che "A volte ritornano" non è solo il titolo di una famosa raccolta di Stephen King della fine degli anni Ottanta, ma anche l’immagine più immediata dell’incapacità del nostro Paese di risolvere le sfide strutturali che rischiano di affossarlo definitivamente. Nel 1993, non a caso, era stato un altro governo tecnico in condizioni di emergenza, il Governo Ciampi, a scuotere l’assetto ormai obsoleto delle relazioni industriali con il famoso Protocollo del 1993 che istituiva una nuova struttura della contrattazione, sancendo un primo spazio importante per la contrattazione aziendale e aprendo a forme di variabilità delle retribuzioni, lasciate al livello aziendale. Come purtroppo accade sovente, le parti, dopo aver a lungo rivendicato la propria autonomia, ebbero bisogno di un intervento molto deciso per porre mano all'architettura portante del sistema di contrattazione. Con significative eccezioni, ad esempio i chimici, quell’accordo è stato nel complesso mal digerito e la portata innovativa fortemente limitata da pratiche, nel complesso, di conservazione: tanto che, a volte, ho l’impressione che l’assetto delle relazioni industriali italiane assomigli molto più alla Sicilia del Gattopardo che non al moderno e innovativo sistema che le parti giocano a propagandare. D’altra parte è una costante del Paese che anche il conflitto diventi una sorta di posa, utile ad alimentare la conservazione dell’esistente, quasi che le parti in gioco siano consapevoli che è meglio un continuo pareggio che sposta in là la resa dei conti rispetto a una vittoria o sconfitta (in questo senso mi vengono in mente malevoli analogie con la polemica calcistica prima degli Europei). Ma a distanza di quasi vent’anni, ci ritroviamo al punto di partenza; e se fossimo in una partita di Monopoli, verrebbe da dire senza passare dal via. Perché un giudizio così severo? Perché i nodi della produttività sono rimasti irrisolti e come sempre accade in questo Paese si pensa di risolverli mettendo mano alla parte sbagliata dell’equazione che è il salario o le ore lavorate. Ma la produttività del lavoro dipende da molti altri fattori. Dipende dal costo dell’energia, dipende dal costo delle infrastrutture mancanti, dipende dal costo esorbitante del nostro sistema di distribuzione che è parassitario come pochi (giusto ieri ho trovato una pasta italiana a un costo del 30% inferiore a quello del supermercato italiano a pochi passi da casa - in via Washington, certo, ma non negli Usa...), dalla mancanza di un’abitudine all’investimento in innovazione, alla carenza di modelli organizzativi orientati al miglioramento continuo, a una Pubblica amministrazione inefficiente e la lista potrebbe continuare. Ma poiché come italiano anch’io trovo più facile la strada del benaltrismo e l’elencazione di quello che ci sarebbe da fare, salvo poi non farlo, questa volta voglio soffermarmi su un tema che in fondo sta dietro a tutto questo. Si tratta dell’incapacità di scegliere e una volta scelto portare la propria azione fino alle sue ultime conseguenze. Il nostro è un paese di equilibrismi. Si sceglie, ma poi si decide di bilanciare tutto. Ad esempio, nell’università si è fatta una riforma, ma quando diventa nuovo Statuto di una specifica università deve essere annacquata, così non sapremo mai se era una cattiva riforma come alcuni pensano o una buona riforma come pensano altri L’incapacità di scegliere ha radici in un’incapacità di prendere impegni di medio-lungo termine che sarebbe necessaria, visto che ogni scelta è interdipendente e non si può pensare di cambiare senza scontentare qualcuno. Questa incapacità è anche un bell’alibi della politica e di tutta la società. E più vivo negli Stati Uniti più ho la sensazione che il filo che accomuna questa incapacità sia la mancanza di percezione di un destino comune, di quella interdipendenza senza la quale l’Italia non esiste, ma non esistono nemmeno le sue componenti: il Nord senza il Sud, la città senza la campagna, i giovani senza i vecchi e così via. Così il gioco diventa quello di stare dal lato che nella crisi soffre di meno o addirittura prospera, senza riconoscere l’importanza di trovare un asse minimale per affrontare le difficoltà. È la grande lezione di Chrysler rispetto a Fiat (anche se sia detto per chiaro, io sono convinto che Fiat se ne andrà dall’Italia quando possibile e lo sostengo da diversi anni, al contrario di un ex ministro che incontrai qualche anno fa a Novara, convinto che Fiat non potesse vivere senza l’Italia...), ma è una lezione che sul tavolo delle relazioni industriali in Italia nessuno ha voglia di imparare.
(Fonte: www.ilsussidiario.net - 10/10/2012)
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