Com'era prevedibile, la dichiarazione di Fiat di considerare ormai superato il piano Fabbrica Italia a causa delle dinamiche del mercato almeno in Europa ha suscitato allarme nel Governo, fra i sindacati, nelle istituzioni locali e nell'ambito delle forze politiche. Premesso peraltro che è gran parte dell'industria automobilistica dell'Unione Europea ad attraversare una fase di forti difficoltà in cui si evidenziano perdite gestionali ed eccessi di capacità produttive - come dimostrato anche dalla vicenda dello stabilimento di Aulnay-sous-Bois della Peugeot in Francia - non si può rimproverare al Gruppo Fiat di aver puntato all'acquisizione della Chrysler e, suo tramite, all'ingresso nel grande mercato americano e altri nei quali quel marchio è affermato, o almeno potenzialmente in grado di posizionarsi con successo. Il processo di internazionalizzazione della grande industria italiana deve proseguire e nessuno, credo, si auguri il contrario: il problema, allora, è come si resta in Italia, con quali impianti e innovazioni tecnologiche, con quale ruolo delle istituzioni pubbliche, con quali relazioni industriali, in quali contesti territoriali: problemi questi che non sono, com'è fin troppo noto, solo di Fiat ma anche di altri top player dell'industria nazionale, alcuni dei quali (fortunatamente) hanno avviato la loro internazionalizzazione già da anni, senza però abbandonare l ́Italia. Ma il sistema Paese è pronto nel suo complesso ad affrontare le sfide, che, piaccia o meno, Marchionne e altri come lui stanno lanciando? Al di là di affermazioni autoconsolatorie del governo - sulle riforme avviate e sulla crescita che si intende perseguire - e di alcuni leader politici, la risposta è (purtroppo) no: non lo siamo da anni, come dimostra anche lo studio del Cnel sulla produttività nel nostro Paese che è già pesantemente declinata. Le aziende non sono per definizione Fondazioni benefiche e se il maggior gruppo privato italiano ritiene superato un piano presentato solo due anni prima vuol dire che sul mercato sono maturate condizioni che glielo hanno imposto. Chiedere oggi i piani di produzione a Fiat è un atto cui essa ha risposto sabato al Governo per pura cortesia istituzionale - anche perché larghe parti di quei piani sono ancora in via di definizione e devono (ovviamente) restare riservate per non dare notizie alla concorrenza - specificando comunque che: 1) gli investimenti partiranno quando il mercato lo consentirà; 2) sarebbe possibile esportare produzioni degli impianti italiani negli U.S.A. . Piuttosto ha ragione Susanna Camusso quando dice che deve essere il Governo a dire cosa esso voglia fare per l'auto in Italia, non limitandosi solo a commentare cosa voglia fare la Fiat. Allora, auspicando proposte "forti" del governo per l'intero comparto dell'automotive, perché non cominciare ad approfondire analisi e possibili programmi di sviluppo competitivo dell'industria del settore localizzata nel Sud, ove essa è massicciamente presente con stabilimenti di assemblaggio finale e di componentistica di Fiat Auto e Fiat Industrial? E' vero che la Casa torinese ha chiuso i due impianti di Termini Imerese (auto) in Sicilia e della Valle dell'Ufita (bus) in Campania, ma vi ha in produzione i grandi siti di Atessa (6.200 addetti), di Pomigliano (5.000 di cui 2.146 in attività) e di Melfi (5.200) con i loro vasti indotti, cui devono aggiungersi le sue fabbriche di componentistica di Sulmona, Termoli, Avellino, Caivano, Foggia, Bari, quella di macchine movimento terra di Lecce e i centri di ricerca Elasis: tutti siti definiti "di eccellenza" dallo stesso Marchionne, in cui negli ultimi anni si sono anche realizzati investimenti per innovazioni di processo e di prodotti. Ma nel Sud vi sono grandi impianti anche di Bosch, Getrag, Bridgestone, Denso, Dayco, Graziano Trasmissioni, Skf, solo per citarne alcuni, anch'essi con cluster di aziende di subfornitura. Le Regioni meridionali dell'obiettivo convergenza potrebbero cofinanziare - come hanno già fatto in passato, sia pure entro certi limiti - contratti di programma per singoli impianti del gruppo, mentre il distretto della meccatronica del Barese potrebbe, insieme ad altri centri di ricerca meridionali, varare ricerche utili a tutti i siti produttivi dell'azienda. Fiat ha rilanciato Pomigliano, ha investito ad Atessa (in joint-venture con Peugeot) e a Termoli, ha trasferito determinate produzioni da Imola a Lecce, ha potenziato il suo stabilimento per motori diesel veloci di Foggia. E non si dimentichi che, se ha dismesso l ́impianto di Termini, lo ha fatto per le persistenti carenze infrastrutturali - e le conseguenti diseconomie - subite per anni in quell'area. Il governo francese ha deciso incentivi per incrementare la diffusione di auto ecologiche. E in Italia? E se una nuova grande partita di Fiat nel nostro Paese si iniziasse a giocare proprio nei suoi stabilimenti meridionali, in cinque Regioni del Mezzogiorno con le loro capacità di co-finanziamento cui unire gli interventi e le risorse del Governo, le sue auspicabili politiche di stimolo del mercato e le incentivazioni all'innovazione tecnologica del comparto?
(Fonte: www.formiche.net - 24/9/2012)
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