domenica 18 settembre 2011

Scomparso l'autore dello slogan: «L’America sarebbe migliore senza la Chrysler?»


Geniale pubblicitario americano, nato a Manhattan, ed ex paracadutista nel Pacifico durante la Seconda guerra mondiale. È morto a Long Island, a casa sua, a 84 anni. Il sobborgo di Auburn Hills, a Detroit, Michigan, potrebbe ricordarlo come un suo personaggio storico. Lì, infatti, è la sede della Chrysler, e il primo epitaffio che Kelmenson si è meritato ha descritto il suo massimo risultato: “An advertising executive who helped to save the Chrysler Corporation”. Ha aiutato a salvare la Chrysler con una campagna più che “creativa”, ricreatrice. E ha aiutato Lee Iacocca – già presidente silurato della Ford – a ridisegnarsi come “l’uomo della Chrysler”, e, in largo, come il marchio personale dell’industria americana dell’auto. Un tipo Vittorio Valletta, anzi un ruolo di quel genere, più che una consonanza di caratteri. Una foto, pubblicata dal New York Times, ritrae insieme Iacocca e Kelmenson, e sembrano due attori di genere di un film di cronaca non particolarmente truce su industria e potere: Iacocca, una specie di Ben Gazzara col mento in avanti, Kelmenson, un primo piano ironico, e arruffato ai lati da due fedine bianche, come un sociologo anni Sessanta. Anche se i fatti salienti risalgono al 1979, e dopo. Quando Iacocca faceva carriera alla Ford, la casa automobilistica (la seconda, sul mercato americano, dopo la Chrysler) affidava a Kelmenson e alla sua società – la Kenyon & Eckhardt – il grosso delle campagne pubblicitarie e della ricerca degli inserzionisti. Erano diventati amici, lo sarebbero rimasti, e avrebbero condiviso, insieme, un passaggio e un massimo avversario, Henry Ford II. Ford era la proprietà, e un massiccio capitano d’industria vecchio stile, lucente di brillantina, e conosciuto nella café society anche per una bella ex moglie italiana, Maria Cristina Vettore Austin. Quando licenziò senza complimenti Iacocca, Kelmenson, senza l’ombra del dubbio, rinunciò, non richiesto di farlo, al contratto quasi esclusivo con la casa: si trattava di un volume d’affari di 75 milioni di dollari ogni anno. Era il 1979, con Jimmy Carter presidente, Leonid Breznev che lanciava l’Armata Rossa in Afghanistan, e tutti gli effetti, anche sui mercati, del travolgente cambio di potere in Iran. Secondo le regole della concorrenza (e quelle, meno automatiche, dell’amicizia in affari), Leo-Arthur Kelmenson passò i suoi servizi a Iacocca – diventato presidente della Chrysler – come unico agente pubblicitario. Ai due amici, con i loro due ruoli incrociati, si presentava un quadro più netto e più pericoloso dell’autoritarismo di Ford, e cioè la crisi della Chrysler con un’ipotizzata bancarotta. I conti tornavano sempre meno, la casa non riusciva più a pagare i fornitori e l’indotto, e Iacocca si faceva dare uno stipendio di un euro all’anno. Un colpo d’immagine, ma troppo teatrale. Ci volevano, come si dice, delle idee. Le ebbe Leo-Arthur, a catena. E la catena doveva servire ad agganciare milioni di consumatori, il pubblico dell’auto, e il governo federale. Andò così. Una campagna televisiva con la domanda a martello «L’America sarebbe migliore senza la Chrysler?», ebbe i suoi effetti a Washington, con l’approvazione di un finanziamento statale di un miliardo e mezzo di dollari, nel 1980 (a ridosso del tempo di Ronald Reagan e della deregulation). Poi Kelmenson puntò sull’uomo e sulla sua immagine. Cioè su Iacocca, facilmente convinto a farsi vedere e intervistare a ripetizione, ricreato, o ancora meglio, da scoprire. E così, sugli schermi, il presidente della Chrysler, si mise a scorrazzare, risoluto ma non presuntuoso, con degli occhiali da aviatore, o indefesso in fabbrica, dicendo agli americani: «Se potete trovare un’auto migliore, compratela». Dove quell’auto poteva non essere una Chrysler (ma l’invito era evidentemente retorico), oppure non poteva che esserlo, una volta trovata. Senza difficoltà. Sembra un racconto di preistoria della storia dell’auto, ma si parla solo di trent’anni fa, quando il termine “pubblicità”, o “advertising” (non ancora rattrappito nella parola “brand”), poteva essere correlato all’acume di un’idea, e anche al rischio d’impresa. D’altronde, il mantra (così lo ha chiamato il New York Times) di Kelmenson era questo: “La pubblicità è il lubrificante del sistema della libera impresa”. Ci aggiungeva anche un altro passaggio, ricordato, per iscritto, dallo stesso Lee Iacocca: «Quando non avevamo i soldi per pagare, Leo chiedeva agli altri suoi clienti di contribuire. Con successo». Erano, fra gli altri, la Colgate-Palmolive, Air France, Seagram, Elizabeth Arden. Dal 10 Gugno 2009, la Chrysler fa parte del gruppo Fiat. Acquistata dopo un ultimo periodo di crisi, e d’imminenza di bancarotta. Questo non toglie valore allo sforzo, e alla forza d’immagine, e di sostanza, di Leo-Arthur Kelmenson, in quel frangente di “ricreazione”. E ricordare che in un sondaggio Gallup, alla fine di quegli anni, lui sia stato sistemato al terzo posto (dopo Ronald Reagan e Giovanni Paolo II) fra i “most respected Americans” del decennio, non suona solo “pubblicità”.
(Fonte: www.nytimes.com - 3/9/2011)

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