mercoledì 22 ottobre 2014

Fiat, orgoglio operaio: dipendenti volontari in tour per raccontare la loro fabbrica


Dipendenti Fiat che lavorano per Fiat come volontari. Nel loro tempo libero. Senza percepire un euro come paga extra o straordinario. Questa, davvero, non si era mai sentita fra gli 82.000 lavoratori italiani del Lingotto (Fiat e Cnh). Eppure è quel che accade da qualche giorno nello stabilimento di Melfi, in Basilicata, dove è partita la produzione della prima auto italo-americana, la Jeep Renegade. A Melfi circa 250 dipendenti Fiat - essendo volontari nessuno ne conosce il numero preciso - nel weekend o fuori turno mandano avanti un progetto anch'esso unico nel suo genere che si chiama "La nostra fabbrica". In sintesi: gli operai volontari girano per le piazze di città e villaggi lucani spiegando ai loro compaesani come lavorano e cosa producono. Lo fanno accompagnati da un container montato su un Tir dentro il quale una dozzina di televisori fanno vedere l'interno della grande fabbrica, come lavorano i suoi 5.941 operai e cosa producono. Il tutto è poi condito dalla presenza in piazza della Jeep Renegade, la nuova vettura globale (sarà venduta in tutto il mondo ad eccezione di Brasile e Cina dove sarà assemblata da due fabbriche gemelle di Melfi) sfornata dalla nuova linea di montaggio di Melfi che affianca quella della Punto (destinata solo all'Europa). Sociologi e spin doctor collocherebbero iniziative del genere nella fascia delle comunicazioni a "bassa frequenza", usate dai piccoli partiti o da aziende giovani che non possono accedere alle leve "forti" di tv e giornali. Il "porta a porta" dei volontari ricorda scenari da "guerriglia asimmetrica", in stile vietcong, spesso adottati dalla contro- informazione dei gruppi politici anti-sistema. Cosa ha a che fare la Fiat con tutto questo? Al sesto anno della Grande Crisi, moltissimo. Infatti, i volontari de "La nostra fabbrica" incarnano e danno credibilità ad un evento che sta capitando sotto i nostri occhi ma al quale in Italia non crede nessuno: la reindustrializzazione. E' difficile parlarne mentre buona parte degli operai di Melfi sono ancora in cassaintegrazione. Nonostante investimenti per un miliardo (il più grande nel Sud da anni), l'arrivo di 600 robot, la rivoluzione sulle linee di montaggio dove - come vedremo - gli operai lavorano con il computer e senza fatica, l'adozione di un sistema produttivo - il WCM - che colloca Melfi al livello delle migliori fabbriche tedesche e un prodotto competitivo come la Jeep Renegade (e presto di un altro modello, la 500X) che fa entrare la Basilicata nel girone della serie A della globalizzazione, in Lucania lo scetticismo sulle prospettive della grande fabbrica si taglia con il coltello. E allora la presenza fisica nelle piazze lucane delle tute grigie tutte uguali, come se fossero missionari, e l'umiltà, semplice e diretta, del messaggio dei volontari Fiat rende più veritiero il rilancio del sogno dell'industria. La fabbrica lucana oggi è uno dei pochi strumenti di coagulo sociale e di creazione di ricchezza diffusa - Melfi ha prodotto quasi 6 milioni di vetture in 21 anni - ma è piegato dalla violenta cura dimagrante subita dal mercato dell'auto europeo. La lunga crisi e la stagione dello scontro con parte del sindacato hanno portato gran parte dell'opinione pubblica lucana a ignorare e guardare con sospetto la grande fabbrica di Melfi. In tanti considerano il lavoro alla linea di montaggio alla stregua di nuove forme di schiavismo e non credono più nella capacità delle aziende italiane di essere competitive. Nel caso della Fiat di Melfi, però, c'è qualcosa di più del ritorno della grande fabbrica sulla scena dell'economia italiana. Il "caso" dei volontari torna a sottolineare le peculiarità di questo stabilimento che, fin dalla sua costruzione dal prato verde nel 1994, non è mai stata una fabbrica qualsiasi. E infatti a parlare con i dipendenti, si scopre in fretta che in Basilicata Fiat sta scrivendo un capitolo nuovo del suo rapporto con gli operai: il passaggio dalla fabbrica-caserma alla fabbrica-partecipata. Un tassello importantissimo di un progetto ancora più grande che Sergio Marchionne sta realizzando: la trasformazione di Fiat (e di Chrysler) da un'azienda tradizionale a gestione vertical-militare, in una società-rete, snella, orizzontale, dove tra l'operaio e l'amministratore delegato ci sono appena 5 o 6 livelli di comando e non più la ventina di qualche anno fa. Questo significa che la figura e il lavoro del dipendente Fiat stanno subendo una trasformazione violenta. Non a caso, Melfi è la prima fabbrica italiana di Fiat le cui linee di produzione sono state "disegnate" ascoltando l'opinione di gruppi di operai inviati a Torino per collaborare con gli ingegneri per progettare il modo più facile e veloce di assemblare una vettura. A Melfi, su scala maggiore rispetto a Pomigliano, è stato costruito un apposito capannone chiamato "pilotino" (in inglese Work Place Integration) dove per mesi e mesi alcune centinaia di operai hanno studiato ogni stazione di montaggio e ogni movimento degli addetti. Un lavoro "win-win" per azienda e operai che ha consentito di accelerare i tempi sulla linea eliminando al tempo stesso tutte le mansioni più faticose. Il risultato? Gli operai oggi lavorano con il computer, quasi come se fossero impiegati. In ogni stazione di montaggio c'è un touch screen dove gli addetti "firmano" le proprie operazioni e scrivono le proposte di miglioramento. Ancora: ogni stazione è affidata ad una squadra di sette operai che ruotano nelle mansioni e sono coordinati da un capo-squadra (il team leader) che non lavora con le mani ma pensa solo all'organizzazione del lavoro affinché tutto fili liscio. Ancora: non c'è più l'odiosa separazione degli operai dagli impiegati che oggi lavorano lungo le linee di montaggio da cui sono divisi solo da un grande cristallo "anti-imboscamento". In questa cornice nasce "La nostra fabbrica". E in questa cornice si possono sentire discorsi di questo genere. "Abbiamo scelto l'aggettivo "nostra" per spiegare la rinascita della fabbrica di Melfi perché non ci rivolgiamo solo ai lavoratori della Fiat - spiega uno dei volontari - Parliamo anche al territorio, ai lucani, ai quali vorremmo far arrivare un messaggio chiaro: non è vero che la fabbrica è un lager e non è vero che lavorare dietro una scrivania o fare il cameriere o il muratore è meglio che fare l'operaio in un grande stabilimento. La realtà della fabbrica è complessa, chiede sacrifici come in tante attività, ma è più viva e interessante di tantissimi altri lavori spesso banali, noiosi e alla fine meno gratificanti. E poi la fabbrica produce ricchezza, richiede grande capacità, porta il talento espresso da un territorio ovunque nel mondo. Della Basilicata e dei suoi prodotti oggi si parla in tutto il mondo dell'automobile". A spiegare caratteri e portata di una iniziativa atipica come "La nostra fabbrica" e i suoi 250 volontari ci saranno anche dosi di carrierismo, di servilismo e forse qualche acrobazia sindacale. Tuttavia, sarebbe fuorviante considerarla una banale mossa di marketing aziendale. Attorno alla rinascita di Melfi è stato fatto un grandissimo lavoro per rinnovare e radicare una forte cultura industriale fra i dipendenti, un lavoro che in Fiat chiamano di "team building". Qualcuno ricorderà il video dello scorso marzo con gli operai che ballavano in fabbrica sulle note della canzone Happy. Era un episodio della costruzione di una squadra di governo della fabbrica, indispensabile per gestire l'assemblaggio di un prodotto molto sofisticato (andrà in 100 mercati) come la Renegade. Inoltre a Melfi si è cercato anche di "aprire" la fabbrica ad un rapporto diretto con la popolazione lucana e la sua classe dirigente. La fabbrica, ad esempio, acquista acqua minerale lucana e non più "nordica" per la propria mensa ed è stata visitata dai dirigenti di alcuni ordini professionali regionali. E non a caso il 21 settembre nel prato di Melfi si è tenuto un concerto per festeggiare il compleanno dello stabilimento che ha compiuto vent'anni. Oltre 30 mila personehanno attraversato i cancelli per ascoltare Giorgia e visitare le linee di montaggio aperte a tutti. Perché Melfi non è solo una fabbrica. E' anche un simbolo o un'esperienza che appartiene un po' a tutti. Come un'idea di fiducia che torna a camminare nei paesi del Sud sulle gambe di lavoratori in carne ed ossa.
(Fonte: http://motori.ilmessaggero.it - 29/9/2014)

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