Se è vero che Warren Buffett, detto l’Oracolo di Omaha, non ne sbaglia una (o quasi), chi scommette sulla galoppata del gruppo Fiat Chrysler Automobiles in Nord America può fregarsi le mani. L’ottantaquattrenne finanziere-industriale del Nebraska ha infatti appena comprato il Van Tuyl Group, una delle più importanti catene di concessionarie d’auto d’America. Vende macchine in dieci Stati, conta già su 78 negozi e ha in programma di espandersi. Anche se Buffett possiede il 2 per cento di General Motors, i suoi nuovi car-shop sono ecumenici e commercializzano vetture di parecchi brand. Sulla Marguerite Parkway di Mission Viejo, California, per esempio, c’è la South County che tratta Fiat e Maserati, mentre a Scottsdale, in Arizona, c’è la Airpark con in bella vista Jeep, Chrysler e Dodge. In settembre, le marche americane del gruppo FCA hanno continuato la domestica rincorsa, regalandosi addirittura il sorpasso ai danni di Toyota. Sergio Marchionne lo ha sottolineato soddisfatto, alla conferenza stampa del 2 ottobre al Mondial de l’Automobile di Parigi. Dopo il 2018, al termine dell’ambizioso piano quinquennale che dovrà portare il gruppo a vendere 7 milioni di auto nel mondo, Marchionne se ne andrà. Lo ha detto a “Business Week”. E mentre si scatena il toto-delfino, con Mike Manley della Jeep in cima alla lista, il gruppo festeggia il 54esimo mese consecutivo di crescita negli Stati Uniti e in Canada. Negli U.S.A. in settembre ha incrementato le vendite del 19 per cento: in grande spolvero soprattutto il marchio Jeep - il gioiello della corona - che ha registrato un vistoso più 43 per cento, seguito dalla marca Ram, con più 30 per cento (i dati finora disponibili relativi a tutti i mercati, fermi al mese di agosto, si trovano nella figura qui sopra). Marchionne ha rivelato che la produzione della prossima generazione della minivan Town & Country della Chrysler sarà avviata nel febbraio 2015, un anno prima rispetto a quanto indicato nel piano industriale presentato in pompa magna cinque mesi fa a Auburn Hills, Detroit. Dunque la FCA corre, in Nord America, e lo slancio potrebbe ovviamente avere un impatto anche sulle quotazioni del nuovo titolo, che esordisce il 13 ottobre a Wall Street. In Europa, invece, corre meno e di debutti anticipati, per ora, non c’è ombra. La 500X, detta anche Cinquecentona, è stata la reginetta della rassegna parigina, ma lo scetticismo ampiamente esibito da Marchionne a proposito della ripresa del Vecchio Continente non lascia trasparire l’intenzione di sfornare in fretta troppe novità. Fa eccezione l’Alfa Romeo. Il rilancio del marchio del Biscione è il dossier italiano che sta più a cuore al boss. Gli ingegneri al lavoro sui nuovi modelli crescono di numero - circa 250, pare, dei 600 uomini impegnati sull’Alfa Project - e nei capannoni “segreti” di Modena si sgobba senza pause. Anche i fornitori sono stati messi alla frusta. Tuttavia, ancora non si ha la certezza assoluta di quando la prima new Alfa sbarcherà in concessionaria. Sulla carta la capofila delle Alfa del nuovo corso dovrebbe debuttare il 24 giugno 2015. È lo stesso giorno in cui, nel 1910, venne fondata la casa - allora- milanese e per quella data il gran capo ha promesso grandi novità. È ipotizzabile che sarà il giorno di nascita della nuova Giulia, ma con Marchionne gli slalom sono sempre dietro l’angolo. Una cosa è certa: sulla rinascita dell’Alfa stavolta ci ha messo la faccia. Un altro rinvio, magari motivato con la depressione del mercato europeo, sembra impensabile. Per sfornare i cinque nuovi modelli promessi entro il 2018 ci vogliono, a spanne, cinque miliardi. Marchionne, ai tempi della presentazione del piano industriale 2014-2018, aveva però fatto capire che i quattrini necessari sarebbero stati spesi “a rate”, e che per passare alla fase successiva sarebbe stato necessario il successo del modello precedente. A Cassino, dove si produrranno le Alfa della nouvelle vague, incrociano le dita e si augurano che la Giulia parta alla grande. La sfida più ambiziosa sul tappeto, tuttavia, si chiama Jeep. Perché se l’Alfa deve risalire dalle 80 mila vetture scarse del 2013 a quota 400 mila, per il mitico marchio yankee il compito è ancora più tosto. Alla Jeep, infatti, è stato dato l’obiettivo di salire a 1,9 milioni di immatricolazioni nel 2018. Nel 2013, la marca americana ha venduto 732 mila veicoli. Un prodigioso balzo in avanti che prevede incrementi annui del 50 per cento in America Latina, del 45 per cento in Asia e nel Pacifico, del 35 per cento in Europa, Medio Oriente e Africa (la cosiddetta area Emea) e del 10 per cento scarso nella zona Nafta (U.S.A., Canada e Messico). Nei cinque mesi trascorsi dall’annuncio di questa escalation-monstre, Marchionne ha dedicato a Jeep il massimo sforzo e, soprattutto, si è affidato all’indiscusso numero uno del brand, Mike Manley, che è pure capo dell’intero gruppo FCA nell’area Asia-Pacifico e potenziale delfino del manager italo-canadese. Inglese, è entrato in Chrysler nel 2000, quando la casa di Detroit era sposata con i tedeschi della Daimler. Potrebbe portare la Jeep al milione tondo di vendite già quest’anno. L’altro fedelissimo, l’americano Richard Tobin, con le auto non c’entra. Guida Cnh International, che fa trattori, macchine movimento terra e camion, un business mediaticamente meno affascinante ma redditizio. In Nord America la scommessa-Jeep è tutto sommato ragionevole, mentre in Brasile il gruppo, nonostante le difficoltà economiche che il Paese attraversa, quando non è il primo nella classifica delle vendite è il secondo. Nel nuovo impianto di Goiana (Pernambuco), un investimento da 1,3 milioni, si comincerà a produrre all’inizio del 2015 la Renegade, la Suv-crossover compatta già in produzione a Melfi e sorella della 500X. Al contrario la sfida appare veramente titanica in Asia. Non per niente Manley sta passando parecchio tempo in Cina, dove FCA nel giugno scorso ha cominciato a costruire con il socio locale Gac lo stabilimento di Guangzhou, nel distretto di Panyu. Sarà pronto nell’estate 2016 e dovrà mettere il turbo alla svelta, per sfornare le 160 mila vetture previste dalla sua capacità produttiva, dato che il piano “vede” la produzione asiatica (dovrà partire pure l’India) di Jeep issarsi a mezzo milione di macchine l’anno nel 2018. In Europa l’asticella è fissata a 200 mila unità annue - come in America Latina - e sembra giustificato l’ottimismo intorno alla fresca Renegade made in Basilicata. Più difficile far decollare i numeri della Cherokee, che si deve battere con rivali temibili e viene venduta in Europa a prezzi assai più alti che in patria. D’altro canto, abbassare i listini significa abbattere la redditività, un atavico problema per la Fiat, con l’eccezione della modaiola 500, al settimo anno di vita e capostipite di un “quasi-brand”. Ma dove vanno reinvestiti gli utili realizzati in Nord America? Nella stessa zona per rafforzarsi ulteriormente, nell’arrembante mercato asiatico oppure nel Vecchio Continente, per rimettere in carreggiata la zoppicante brigata europea dell’armata Marchionne? Un bel dilemma. In Italia, intanto, brilla la stella Maserati. La Ghibli va bene e ci sono grandi aspettative per il Suv che si chiamerà Levante: quest’anno la Maserati venderà 35 mila auto e le 75 mila unità programmate per il fatidico 2018 non sono più così lontane. Nonostante il boom del Tridente e dei vicini di casa della Ferrari, comunque, il sempre più evidente spostamento del baricentro verso il Nord America acuisce le tensioni tra i vertici in Italia. Abbondano le voci di malumori tra Alfredo Altavilla, capo di Fiat Chrysler per l’Emea, e il tedesco Harald Wester, capo di Maserati e Alfa. E si maligna di scarso fair-play nel sottolineare gli insuccessi ascrivibili all’altro. Del tipo: Wester che ha fatto poco per l’Alfa negli anni delle rinascite mai avvenute, il motore twin-air bicilindrico sponsorizzato da Altavilla che sta perdendo il confronto con i tre cilindri della concorrenza, per esempio. Sia Altavilla che Wester, si dice, hanno cullato l’idea di essere i numeri due del boss. Poi hanno capito che, ammesso possa esistere un numero due di Marchionne, probabilmente sta a Detroit. E non in Italia.
(Fonte: http://espresso.repubblica.it - 10/10/2014)
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