Il rilancio tante volte annunciato, e per sua stessa ammissione fin qui sempre fallito, oggi gli deve per forza riuscire. O Sergio Marchionne non centrerà l’ultima e ormai unica sfida cui in tanti lo aspettano: dimostrare di essere uomo d’industria, oltre che mago delle trattative. E soprattutto, al di là dell’ego: o la vince, la sfida, oppure addio Alfa Romeo. E conseguente asse portante di quella «rivoluzione premium» senza la quale il braccio italiano di Fiat-Chrysler rischia di non avere futuro. Perciò sono due anni almeno che lui boccia progetti su progetti, li rimanda agli ingegneri, riconvoca i designer, ingoia le critiche sui ritardi. La Giulia, per dire, l’aveva promessa per il 2014. Arriverà solo (forse) a 2015 inoltrato. In mezzo, un’infinità di piani gettati nel cestino: «Questa non è un’Alfa», era la regolare sentenza del big boss. «Questa non è un’Alfa» - o non era: anni a lavorarci sopra e i risultati stanno arrivando - a partire dai motori. Si erano abituati da una vita, a Torino, a mettere sotto il cofano gli stessi propulsori Fiat. Peccato non sia quello che vogliono gli alfisti, e meno ancora quel che si aspettano gli americani. Per carità, le Fiat nel frattempo di strada ne hanno fatta, e parecchia. Al Lingotto qualche motore da manuale (e da premi internazionali) hanno continuato a inventarlo. Solo che l’alfista non lo schiodi. Anche giovane, anche se delle Giulia e Giulietta e spider che furono il top negli anni Sessanta ha solo sentito parlare da genitori e nonni, pretende esattamente quello. Motori «cattivi». Assetto aggressivo. Scatto, velocità, ruote incollate alla strada. Naturalmente dall’interno di una carrozzeria altrettanto riconoscibile. Ora. Più di un passo in Alfa c’è stato. Gli obbrobri dell’Arna d’epoca Iri, pensata solo per dare al Mezzogiorno l’illusione di un lavoro in realtà gonfiato dai sussidi, per fortuna non li ricorda quasi nessuno. Ci ha messo parecchio ma, dall’auto che il Biscione l’ha portato a tanto così dalla chiusura (e al passaggio alla Fiat, spinta allora soprattutto dal fantasma Ford), il Lingotto è risalito. A un soffio dal rilancio si è più volte avvicinato. La 156, a fine anni Novanta, gli alfisti li ha riconquistati. La Giulietta è un successo dal 2010. La Mito un po’ di giovani li ha agganciati. Però era, è tutto lì. Perché in fondo a Torino non ci hanno mai creduto né (neppure nell’era Marchionne) investito davvero. Il risultato è che le 100 mila auto, suppergiù, vendute nel 2013 sono quel che l’Alfa vendeva nell’Italia del 1969 (e un quinto dell’obiettivo iniziale dello stesso Marchionne). Il brand glorioso, oggetto del desiderio della concorrenza, continua a bruciare milioni e milioni. Può finire, il brutto copione. C’è almeno un miliardo in arrivo. Servirà solo per cominciare, e ricalibrare gli impianti: dopodiché, dicono gli analisti, su gamma e distribuzione occorrerà metterne minimo altri quattro in cinque anni. La partita però è iniziata. Si gioca tra Torino, Modena, Cassino. Al Lingotto c’è la regia: Marchionne non butta più interi piani tra la carta straccia, le nuove Alfa cominciano a «essere» Alfa. A Modena, ben protetto dallo stabilimento Maserati, c’è il team project che in trasferta, nel «capannone fantasma» cui il leader Fiat-Chrysler ha accennato in un’intervista, mette a punto sceneggiatura e cast: dal design ai motori - ma non equivocate sull’annunciata «collaborazione con Ferrari»: non si andrà oltre le tecnologie e qualche componente in comune - si dà forma all’input inderogabile del big boss. Ossia, come ricordato da Detroit: «Alfa Romeo ha caratteristiche proprie e architetture completamente “Alfa”. È essenziale tornare lì, al suo Dna, per tornare sui mercati internazionali». Infine, Cassino. Dove il film prenderà forma. Le auto del Biscione sono, anche, stile italiano, per cui «solo in Italia saranno prodotte, almeno finché sarò io l’amministratore delegato». E se la fabbrica laziale era rimasta l’unica senza una mission, c’è un’unica ragione (tentazioni U.S.A. a parte): è la più adatta, sotto ogni profilo, a produrre per il nuovo corso, ma cosa produci se il progetto non c’è? Ora che i ritardi «a monte» sono finiti, finirà anche l’attesa «a valle». L’Alfa del «ritorno al Dna», con qualche lussuosa contaminazione Ferrari e Maserati, arriverà dal frusinate. Alla Giulietta che già produce Cassino aggiungerà la Giulia e la relativa station wagon. Se la giocherà con Torino, poi, per il resto della new generation: ammiraglia e Suv hanno, sulla carta, maggiori sinergie con le piattaforme di Grugliasco-Mirafiori. A tutti, e a Marchionne per primo, questa volta è però vietato sbagliare. Non salterebbero soltanto una fabbrica e un marchio. Salterebbe buona parte della strategia di rilancio Fiat-Chrysler in Italia. L’ultima chance, oggi, non è ultima solo per l’Alfa.
(Fonte: www.corriere.it - 16/1/2014)
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