martedì 16 settembre 2014

Jeep Renegade (2): i segreti di Melfi


Una Jeep costruita in una fabbrica Fiat. In Italia. Anzi, nel Sud. Ne scrivi e avverti subito lo strappo o, se preferite, l’effetto “game changer”. Il fatto suona strano persino in questi giorni del lancio globale della Jeep Renegade, il minisuv che sta rivoluzionando la vita della vecchia fabbrica di Melfi, in Basilicata. Uno stabilimento finora monoprodotto, per 21 anni dedicato alla Punto, e che fra tre mesi inizierà a produrre anche la Fiat 500X. Un altro strappo. Ci sarà tempo per analizzare qualità e manchevolezze del modello italo-americano. Per ora concentriamoci sulla novità più immediata: la rottura che Renegade segna sul piano industriale. Infatti, a 30 anni dalla Ritmo-Strada che fu venduta anche negli U.S.A., un’auto pop made in Italy torna a confrontarsi con un mercato di 3 miliardi di automobilisti globali e non più solo con i 500 milioni europei. “Game changer”, poi, la Renegade lo è fin dai bulloni, per come viene costruita. Ne so qualcosa perché, per via di un piccolo saggio che sto scrivendo, sono fra i pochi ”esterni” che ha potuto “studiare” la fabbrica di Melfi nel corso della sua ristrutturazione. Durante la quale ho potuto toccare con mano tre fattori di forte rottura. Primo: nella storia della Fiat, Melfi è la prima fabbrica ad essere stata (ri)progettata assieme a gruppi di operai. Fin dai primi disegni tecnici della Renegade, piccoli gruppi di team leader (operai che gestiscono le squadre di sei colleghi che ruotano intorno ad ogni stazione di montaggio) sono stati spediti a Torino per discutere con gli ingegneri modifiche ai macchinari. In una seconda fase, oltre 300 operai hanno lavorato per mesi nel WPI (Work Place Integration), ovvero in un apposito capannone dedicato allo studio ossessivo di ogni movimento del montaggio con l’obiettivo di eliminare tutti i tempi morti secondo il sistema di misurazione del lavoro Ergo-Uas condiviso con una buona parte dei sindacati. Migliaia di proposte sono state provate e riprovate lavorando su schermi a tre dimensioni che riproducono operai “veri” per risparmiare ogni secondo e talvolta centesimi di secondo di lavoro. Secondo “salto”: a Melfi il lavoro lungo le linee è duro, ma il vero compagno di viaggio dei 5.400 operai è lo stress. Come accade per i colleghi quadri o impiegati, con la Renegade anche l’operaio lavora al computer. Ogni stazione di montaggio è dotata di un touch screen sul quale ogni operatore “firma” le proprie operazioni effettuate in rotazione con i cinque colleghi del team, riceve disposizioni, legge le informazioni, scrive propri suggerimenti. Terzo: Melfi - fra milioni di problemi - ha dedicato primavera ed estate alla cementificazione di una “cultura di squadra” (ricordate il video degli operai che ballavano in fabbrica?) che ha strappato – anche qui – antiche consuetudini militariste della gerarchia Fiat. La Renegade è stata presentata in anteprima ai dipendenti con una festa. Lo stabilimento ha provato ad acquisire il valore aggiunto di un centro culturale sul territorio ospitando conferenze sulla leadership di Antonio Conte e di Stefano Domenicali (all’epoca ancora in Ferrari), uno speech sull’America tenuto da Beppe Severgnini, esibizioni di gruppo (una persino di un operaio trombettista accompagnato da un coro di colleghi). Il cambio di passo ha sbriciolato i caposaldi della fabbrica-caserma: il direttore ora veste una tuta identica a quella di tutti gli altri dipendenti; gli impiegati lavorano in uffici anti-imboscamento separati dagli operai da un semplice cristallo; i quadri di “controllo” hanno perso potere a favore dei team leader e dei molti “professionals” impiegati nei due nuovi settori di punta, la logistica e la qualità, in un contesto di catena di comando cortissima.  “Tutta un’ammuina”, direte in molti. Ma intanto il lavoro in fabbrica è davvero cambiato in profondità. A Melfi (dopo Pomigliano) non c’è più traccia di lavorazioni scomode, stile Tempi Moderni di Charlie Chaplin, che pure hanno segnato la linea Punto. Non perché la Fiat e Sergio Marchionne siano dei filantropi o perché il popolo della fabbrica abbia smesso di trottare (di sudare, si, però). La ragione è semplice: alla Fiat conviene.  Grazie alla paziente opera di Stefan Ketter, l’ingegnere tedesco strappato 12 anni fa alla Volkswagen brasiliana e da allora a capo del Fiat Manufacturing, il Lingotto ha scoperto che lavorare bene “funziona”. Rendere meno faticoso il lavoro operaio significa produrre di più con meno persone e con costi e sprechi sotto disciplina. All’azienda conviene anche un lavoro di qualità più alta. La Renegade, legata anche a motori e componenti made in U.S.A., ha bisogno di lavorazioni molto qualificate e profondamente condivise per tentare di essere competitiva.  Un ultimo esempio aiuta a capire come e quanto è cambiata la fabbrica. A Pomigliano l’Ergo-Uas assegna agli operai un tempo di riposo supplementare (si chiama fattore di maggiorazione) per recuperare la fatica delle lavorazioni più pesanti. Il recupero medio ammonta al 3% del tempo totale. Pochissimo. Ma a Melfi l’obiettivo di recupero è pari a zero. Un bel trampolino per il gioco del “game changer” proiettato nel 2015 sull’Alfa Romeo di Cassino.
(Fonte: www.carblogger.it - 6/9/2014)

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