Sarà un gruppo globale, che guarda al mondo intero come mercato. Un produttore che conta su un’integrazione «culturale, prima ancora che industriale» - ci tiene a dire subito Sergio Marchionne - tra la vecchia Europa e la sempre nuova America. La rivoluzione cominciata cinque anni fa dalla Fiat a trazione Marchionne, con un presidente come John Elkann che ha traghettato gli azionisti di un produttore locale in continua sofferenza fino alle sponde assai più sicure di un gruppo che vede il mondo come fabbrica e mercato, prende corpo - e anche anima, oggi non sembra enfatico dirlo - in una mattinata di fredda primavera americana. Ad Auburn Hills, quello che era il quartier generale della Chrysler e diventa adesso uno dei centri nevralgici della nuova Fca, Fiat Chrysler Automobiles, i numeri e i progetti che l’amministratore delegato e la sua prima linea di manager («gente che in questi anni ne ha viste di tutti i colori») sfornano per tutta la giornata di ieri davanti agli analisti e ai giornalisti sono al tempo stesso una promessa di un futuro assai diverso da un passato di grandi difficoltà e il bilancio di un enorme cambiamento riuscito ma tutt’altro che terminato: «Non apriamo un nuovo capitolo, cominciamo a scrivere un nuovo libro». Alcune premesse, in questo nuovo libro che si va a scrivere, sono già chiare. La prima è che nel «mondo piatto - ricorda Marchionne - non sei al sicuro in casa tua se non sei in grado di competere con le altre realtà»; niente più zone franche al riparo dalla concorrenza. La seconda premessa, speculare alla prima, è che nel nuovo mondo senza barriere le fabbriche e le automobili che producono possono avere - a patto che siano competitive - opportunità fino a ieri insperate, senza essere più legate al ciclo di un singolo mercato. Proprio grazie a questa nuova geografia della competizione dagli stabilimenti di un’Italia, non certo spumeggiante per domanda interna e ciclo economico, arriveranno nei prossimi anni gli otto modelli che segneranno la rinascita dell’Alfa Romeo, spinta da una robustissima iniezione di alta qualità, investimenti per 5 miliardi di euro e una produzione che a regime arriverà a 400 mila vetture l’anno. Proprio per questo da Melfi, Basilicata, le nuove Jeep Renegade prenderanno - incredibile solo pensarlo fino all’altroieri - anche la strada delle highways americane. Proprio per questo il lusso Maserati, che oggi si fabbrica a Grugliasco - periferia di Torino - e domani sarà sempre italiano ma non solo «Made in Torino», prevede di quintuplicare le vendite da 15 mila a 75 mila vetture. Sarà un gruppo dove girano le fabbriche, ma anche le bisarche e le grandi navi, questa Fca. Il mercato Nafta, quello nordamericano che cresce a ritmi sostenuti, lo scorso anno ha importato 32 mila auto dei marchi comuni fabbricate altrove, ne ha prodotte e vendute localmente 2 milioni e centomila, ne ha esportate 253 mila. Tra cinque anni - raccontano le slides - le importazioni saranno più che decuplicate a 360 mila, la produzione dedicata al mercato interno sfiorerà i 2,6 milioni, l’export sarà a quota 380 mila. Nell’Emea, il mercato che comprende anche l’intera Europa dalla congiuntura ancora poco forte, le vendite saranno meno entusiasmanti e dagli 1,1 milioni del 2013 si arriverà a fine piano a 1,5 milioni. Ma la produzione totale nel continente sarà superiore, visto che il 40% delle auto che usciranno dalle fabbriche saranno destinate alle esportazioni. E quel che prevede il piano - spiega il capo dell’area Alfredo Altavilla - è comunque la piena utilizzazione di tutti gli impianti europei del gruppo. In Italia nel 2013 gli stabilimenti hanno girato al 53% delle loro capacità produttive. Nel 2018 quella percentuale passa al 100%. Di fronte a questo obiettivo, con la promessa di stabilimenti pieni anche se la sede sociale non è più a Torino, con la realtà di un gruppo che si rafforza grazie a una proiezione fuori dai suoi confini tradizionali, diventa difficile - se non impossibile - raccontare una Fiat che abbandona l’Italia. Non a caso le prime reazioni dei sindacalisti di casa nostra arrivati anche loro ad Auburn Hills sono molto positive. Certo, c’è anche chi ricorda il precedente di «Fabbrica Italia», il programma di massicci investimenti annunciato nel 2010 e poi non realizzato di fronte al crollo dell’economia. Ma questa volta, anche grazie al grande rilancio dell’Alfa Romeo, con il cambio di paradigma che sposta molti impianti italiani dalla produzione di auto di massa a quel segmento «premium» a maggior valore aggiunto, non si attendono sorprese: il primo modello del nuovo corso Alfa dovrà arrivare il prossimo anno, gli investimenti partiranno a brevissimo. A completare la geografia globale del gruppo, in America Latina le vendite passeranno da 900 mila a 1,3 milioni nel 2018; in Asia si passerà dalle 235 mila vetture attuali vendute in Cina ad 850 mila per fine piano, anche grazie all’apporto di Alfa Romeo e Jeep, mentre in India - anche qui arriverà nel 2015 la Jeep - è prevista una crescita da 25 mila a 130 mila auto. È una scacchiera globale - quella su cui gioca la nuova Fca - dove i prodotti, le economie delle piattaforme su cui si basano modelli diversi, la logistica e le strategie di marketing giocano tutte la loro parte. La scommessa, moltiplicata per i tanti marchi - da Jeep a Fiat, da Alfa Romeo a Chrysler, da Dodge e Ram a Ferrari e Maserati - è quella di trovare per ogni auto il suo posto e la sua clientela in un mercato sempre più grande e sempre più segmentato. Il nuovo gruppo che da Torino e Detroit adesso punta a nuovi mercati, è la promessa di Marchionne, ha le carte in regola per riuscirci.
(Fonte: www.lastampa.it - 7/5/2014)
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