lunedì 1 marzo 2010

Conviene agli Agnelli una Fiat Auto "scorporata" e "deitalianizzata"?


«La Fiat non lascerà Torino. Torino, per la Fiat, è il luogo dove siamo e dove staremo. Qui c'è il nostro cuore, qui c'è la nostra testa». La rassicurazione è del vicepresidente John Elkann e, riecheggiando Sergio Marchionne secondo il quale «è impensabile una Fiat senza Torino», dovrebbe chiudere il discorso. Ma resta il dubbio sull'estensibilità della dimensione Torino alla dimensione Italia. E non soltanto perchè ancora non è ben chiaro che fine farà lo stabilimento di Termini Imerese, ma per la ragione che si teme possa essere in atto una «deitalianizzazione» della Fiat per dire un processo che riguarda tutto il gruppo e non il solo impianto siciliano. Messa in questi termini potrebbe sembrare una questione di quelle che stanno dentro il perimetro dei rapporti tra azienda e sindacato con qualche ruolo per le istituzioni e per la politica. Ma dall'osservatorio Exor di Corso Matteotti, per dire la roccaforte di controllo della società nel cuore di Torino, il colpo d'occhio è quello di una Fiat Group Automobiles fatta, in Italia, da cinque stabilimenti con circa 30 mila dipendenti. Meno della metà di quelli che lavoravano nella sola Mirafiori agli inizi degli anni Settanta. Ma con un orizzonte assai più lungo, anche se tra gli eredi dell'Avvocato c'è qualcuno che fatica a leggere la strategia del manager che ha strappato l'azienda di famiglia a un declino annunciato e che sembrava irreversibile. Meglio primi in Italia o tra i primi nel mondo? Questo interrogativo ha sostituito un altro che circolava fino a un paio di anni fa e che faceva pensare all'intenzione degli Agnelli di disfarsi del settore automotive puntando su una diversificazione che comportasse meno rischi di questo. Una posizione, questa, sulla quale, senza mai uscire allo scoperto, sembrava fossero schierati alcuni rappresentanti della generazione di mezzo, lontani dalla storia Fiat e poco propensi ad accettare un futuro sempre legato alla scommessa dell'auto. Forse non hanno cambiato idea neppure oggi, ma si guardano bene dal sollevare la questione. C'è qualcosa di più urgente e per adesso va bene così. Agli Agnelli non sfugge infatti che, con la grande crisi ancora in atto, l'industria mondiale dell'automobile è diventata sempre di più un «mestiere rischioso». Si può conquistare la vetta ma senza alcuna sicurezza di non essere detronizzati: ne sanno qualcosa la General Motors e la Toyota. E' però un fatto che su queste montagne russe sarebbe ancor più rischiosa ogni mossa che non fosse quella fatta da Marchionne per portare la Fiat verso una soglia di sicurezza. E già questo è sufficiente a spiegare l'adesione incondizionata della Famiglia, non solo di John Elkann, rispetto alle scelte strategiche dell'ad del Lingotto. Dopotutto chi ha preso le redini di un'azienda sull'orlo del fallimento trasformandola in un gruppo da oltre 4 milioni di vetture all'anno grazie a un'alleanza con Chrysler che per giunta è costata poco o nulla si è conquistata un'autonomia di manovra quanto meno fino a quando non si potrà fare un primo bilancio di quanto è successo nel corso del 2009. Dunque una Fiat meno italiana? Se lo si chiede ai più avveduti tra quelli che hanno peso nella galassia Agnelli, la risposta è che ciò che conta è una Fiat più forte e in grado di stare tra i grandi dell'industria mondiale dell'auto. Una Fiat che è in America Latina, Polonia, Turchia, Serbia, Russia, Cina, India e anche negli Stati Uniti è assai diversa dalla Fiat in dimensione domestica che sul finire del secolo scorso stava sprofondando senza che nessuno corresse ai ripari. Questo spiega la sintonia degli ultimi cinque anni e l'autonomia che la Famiglia ha accordato a Marchionne, nella convinzione che senza le scelte da lui operate la Fiat non avrebbe avuto alcun futuro. La Famiglia si affida dunque allo stratega Marchionne e non interferisce in una Fiat assai diversa da quella del passato quando, sotto la guida indiscussa dell' Avvocato, alcuni suoi esponenti erano presenti nell'azienda anche con ruoli esecutivi. Oggi la sua rappresentanza è tutta negli organi istituzionali, John è vicepresidente di Fiat e di Exor nel cui cda siede anche Andrea, figlio di Umberto e Allegra Caracciolo, e altri membri del clan allargato degli Agnelli come Tiberto Brandolini d'Adda, Pio Teodorani Fabbri, Lupo Rattazzi, Oddone Camerana, Luca Ferrero di Ventimiglia, Alessandro Nasi. Nessuno di loro ha mai messo in discussione le scelte di Marchionne. Che, col tempo, ha assunto anche il ruolo di referente nei rapporti internazionali. In questo, che era il ruolo dell' Avvocato, Marchionne pertanto si ritrova ad avere una posizione più forte e più autonoma nel ridisegnare una Fiat, come si dice oggi, meno italiana e più internazionale. Con l'assetto societario attuale? E' questo un interrogativo aggiuntivo che non pretende risposte immediate da parte del gruppo che controlla Fiat. Semmai questo discorso si riproporrà più avanti quando l'ad del Lingotto proverà a rispolverare il progetto di spin-off dell'Auto che aveva messo in cantiere nella primavera del 2009 quando ancora era convinto che, dopo l'operazione Chrysler, sarebbe maturata anche quella che avrebbe portato la Opel sotto l'ombrello di Fiat. L'argomento è per il momento accantonato. E nessun membro della famiglia Agnelli ha intenzione di metterlo in agenda. Neppure quelli che sembravano optare per una politica di diversificazione da parte di Exor. Essi sanno che, nonostante le difficoltà insorte con la crisi, l'auto resta ancora il settore forte della Fiat e dunque hanno interesse a consolidarlo per poter avere maggiori probabilità di successo al momento in cui si decidesse lo spin-off. Possono aspettare essendo incoraggiati anche dal fatto che una Fiat più presente nello scenario mondiale è più credibile sui mercati borsistici. In questa prospettiva, la Fiat meno italiana non costituisce un problema salvo i rapporti col sindacato e col governo che, peraltro, nel bene e nel male, da tempo non sono più quelli che intratteneva la Fiat dell'Avvocato e di Cesare Romiti. E poi, nel gioco delle deleghe e dei ruoli, questo è un affare che riguarda in parte Luca Cordero di Montezemolo, in parte Marchionne. Semmai la questione si ripresenterà quando, ultimata la «campagna acquisti» intesa come alleanze, l'ad del Lingotto imboccherà veramente la strada dello scorporo dell'auto. Ma questo è uno scenario che gli Agnelli, seppure nella non totalità degli eredi interessati alla questione, hanno già provveduto a prefigurarsi. E a quanto si sa essa non confligge con l'attuale conduzione di Fiat da parte di Marchionne. Se infatti l'obiettivo è quello di sganciare dal gruppo il settore auto per collocarlo in Borsa, la Famiglia non potrebbe che trarne dei benefici. Conservare il controllo di una Fiat senza l'auto e per giunta in possesso di una quota consistente in un gruppo automobilistico da 5-6 milioni di vetture all'anno non è certo un affare in perdita. Ed è anche questa la chiave di lettura della loro posizione di fronte alla «deitalianizzazione» della Fiat. Forse tra loro c'è chi pensa che l'Avvocato avrebbe affrontato diversamente la questione, sapendo però che quelli erano altri tempi. E anche un'altra Fiat che oggi avrebbe qualche problema a sopravvivere.
(Fonte: www.repubblica.it - 1/3/2010)

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