venerdì 15 ottobre 2010
Vittorio Zucconi a spasso in 500 a New York: "Fantastica, che cos'è?"
Sta, bianca e rotondetta sull'asfalto di Park Avenue, come una pallina di gelato di crema caduta dalle mani di un bambino di cemento enorme e sbadato. Ho paura che mi si squagli sotto il sedere o che uno dei grattacieli attorno a me si curvi come in un cartoon disneyano per raccogliere dal pavimento la prima Fiat 500 mai vista a New York e per buttarla via, dopo avere rimproverato il bambino. Il portiere del Waldorf Astoria, in alamari, mostrine e berretto da ammiraglio, addestrato a giostrare limousine obbligatoriamente nere, possibilmente lunghe un centinaio di metri, guarda allibito la mia pallina di gelato infilarsi fra le portaerei funebri che lui manovra, incerto fra la voglia di cacciarmi via con una scopa come i monelli in un vicolo o di cercare dove stia il manico per caricarla sul carrello dei facchini per portarla in camera. Soltanto un biglietto verde da 20 dollari, che poi al Waldorf è come 50 centesimi a un lavavetri di Roma, lo intenerisce, almeno fino a quando due ciclisti si fermano tra le limousine per chiedere che cosa sia quella cosina bianca mai vista. Fantastica, che cos'è? "È la vostra prossima bicicletta, ma meno faticosa" gli rispondo e questo offende contemporaneamente i ciclisti e il portiere. Finalmente ho capito come doveva sentirsi Pollicino nel bosco dei giganti. Sfidare la città più sfacciata del mondo al volante dell'automobilina più timida del mondo è la perfetta metafora del "folle volo" che la Fiat ora Chrysler, o Chrysler ora Fiat, si prepara a lanciare all'America delle immense altezze e della infinite distanze, dove mille chilometri in autostrada sono una gita fuoriporta e cinque litri di cilindrata per sette posti a sedere sono la vetturetta di famiglia. Eppure, se questa pallina di gelato bianco metallizzato ha una speranza di farcela quando sarà messa in vendita all'inizio del 2011, è qui, tra i ciclopi di Park Avenue, nei budelli puzzolenti di pesce fradicio di Chinatown, nello snobismo autoreferenziale del Village, nei canyon metropolitani della Quinta, nell'universo alla "Seinfeld", alla Woody Allen o alla "Sex and the City" solleticando la fantasia viziata dei bamboccioni e delle bamboccione metropolitani. Il primo test umano, non di quel genere che terrorizza gli ingegneri e i progettisti, deve quindi essere inevitabilmente la "prova della calamita", "Sex and the Cinquecento". Sulla riva orientale dello East River, all'ombra del ponte che da Brooklyn si avventura verso l'isola di Manhattan, l'esatto opposto della mia pallina bianca con occhietti sgranati, piomba inaspettata una gigantesca Buick del 1957 ancora trionfalmente armata di pinne, armature cromate e paraurti da guerra. Viene risucchiata dalla mia Pollicina e ne scende una signora che deve avere più o meno l'età della prima 500 lanciata proprio nel 1957, ma si batte eroicamente, tra minigonna e trucco da campagna elettorale, per ingannare il Dio Chronos. "What a darling, how cute", che tesorino, che carina, struscia le sue residue curve attorno alle sode curve fortunatamente per lei senza speroni né pinne, della mia pagnotella metalizzata, dichiarando subito la propria italianità in una lingua ancora comprensibile. "Hello, darling (questa volta il darling sarei io, flirt fra coetanei) mi chiamo Ginetta Vendetta (ma figurati)". Poi mi sussurra facendo le fusa: "E suono benissimo la tromba". Prima che possano ingenerarsi equivoci, "Ginetta Vendetta" sfodera dal seno un biglietto da visita ornato di notine musicali e di trombettine. La calamita su ruote ha fatto il suo servizio anche se, come con tutte le calamite, non si può sapere quali rottami di ferro o limatura raccolga. L'ansia ti riassale sul ponte di Brooklyn, lanciati, per modo di dire, nei giochi di luce e nel precipizio sull'acqua verso i ciclopi dell'isola. Davanti a caffè e bistrò e ristoranti di cucina "fusion" (mescola e rimescola qualcosa uscirà dalla cucina) una generazione femminile di modello più recente attornia la mia 500, con gridolini di desiderio non proprio da scarpe di Manolo Blahnik, ma promettenti (per l'auto, non per il guidatore, sia chiaro). "Ne voglio una, subito, me la regali?" mi implora un paio di tacchi a spillo, "a stiletto" si dice qui. Non è mia, purtroppo. "Guarda, ha persino un portabagagli per lo shopping" si entusiasma una signora uscita da un caffè chiamato proprio "Fiat Caffè" alla Bowery, in Mott Street, adornato con foto di tutte le versione della antenata e di almeno 50 modellini in pressofusione della stessa. "Ah oui" si unisce al cinguettio delle fanciulle il proprietario, francese "elle est mignonne cette petite", sentenzia, carina, la piccola. La comprerebbe? Mai. Ah, e allora. "Ma appenderò subito una foto al muro". Posa e scatta. Meglio che niente, mister Marchionne. "Ma il motore dov'è?", interloquisce un passante anziano che giura di avere pagato il tributo alla Fiat quarant'anni or sono. Davanti. Sembra un po' deluso. Esce dalla "grosseria" Di Palo, l'ultimo alimentari italiano vero nella Little Italy ormai cinese, Lou, il padrone. "Bella, Fiat?". Fiat. "L'ultima volta che ero in Italy ho noleggiato un furgon - proprio così, furgon - Fiat e mi ha piantato sull'autostrada come un coglion". Sento qualche prevenzione. Quando il colossale camion me l'aveva scaricata davanti, sotto lo sguardo della polizia di New York intenerita al punto da trascurare il fatto che non aveva targa se non una provvisoria del Michigan, Detroit, e semi-invisibile nel lunotto posteriore (dottor Marchionne si rilassi: neppure una multa, neppure un graffio e persino il cambio a sei marce, inutilmente obbligatorio ormai in tutte le auto, scattava come un temperino svizzero allontanando ricordi giovanili di marce non sincronizzate) più che i "cop", i piedipiatti di Manhattan, temevo due cose: i tassì gialli, quelli che si muovono come branchi di squali pilotati da kamikaze che sono stati bocciati dalle scuole guida di Kabul e le buche, quei "potholes" che inghiottono automobili senza più lasciarne traccia o che, riparate frettolosamente con lastroni di acciaio e con dislivelli da gradinata di stadio, deformano ruote e triturano sospensioni. Invece Pollicino, che ancora non gradisce troppo le autostrade essendo abituato a vivere nel bosco urbano con i fratellini, non piange, non cigola, non si deforma. Sprofonda ed emerge intatto, pronto per un altro orco, come i cavalli nei guadi del West. Il rischio è, piuttosto, il semaforo all'angolo della Quinta e della 57esima, davanti a Van Cleef & Arpels, il gioielliere preferito da Jackie Onassis vedova Kennedy, dove il più umile dei gingilli costa due volte il mio gelatino e muraglie umane mi circondano nella continua transumanza di un week-end delizioso di shopping autunnale. Al volante, all'altezza delle loro borse, sacchetti, deretani XXXL carrozzati da decenni di Big Mac, ti senti come il gatto con la coda lunga in una discoteca, ma la gente, persino il ferale turista a Manhattan, persino il ragazzone che sperò invano nel basket professionale, al quale arrivo alle ginocchia, aggirano la mia 500 con la tenerezza di parenti nella nursery della sala parto, si piegano in tre per parlarmi. "Cool car", sento le voci echeggiare, ganza questa macchina, "I love Fiat" (questa poi, non me l'aspettavo proprio) "Avevo una 128 Fiat", mi sorride un passante di mezzo età abbondante, e il fatto che mi sorrida, visto il ricordo di quel disastro anni '70, mi conforta sulla capacità umana di perdonare. Appoggiata al semaforo, una stupenda creatura di genere femminile, almeno credo, il doppio delle gambe e la metà degli anni della mia Ginetta suonatrice di trombetta, tenta di ignorarmi, l'auto intendo. Guarda in alto, sbuffa annoiata, ma poi cede e mi regala un sorriso da ortodontista di Park Avenue. Lo fa con perfetta scelta di tempo, con la malizia delle molto belle e molto abituate, appena il mar Rosso della folla attorno a me si apre e il verde mi costringe a scatenare i volenterosi cavallini polacchi progettati a Torino e trotterellare via. Ma funziona, funziona. La macchina. ovviamente. La prova d'amore finale, superata con successo anche Harlem o quel che ne resta e, dopo, un ampio e articolato dibattito con il guidatore di un autobus per turisti davanti all'inevitabile "Apollo Theatre" ("il motore sembra fatto bene, dentro è comoda" conclude, lui che con una sculettata in autostrada del suo bus con tv satellitare, toeletta, otto marce, diesel autogovernato, potrebbe spedirmi in un altro stato come una pallina da baseball) sarà alla sera, davanti a uno dei ristoranti italiani più stellari del momento, decorato da quegli schicchignosi del New York Times con quattro stelle da poche settimane. Nel buio ottobrino che ormai cala presto, fra le magnaccione tedesche private e le "stretch limo" degli esibizionisti, davanti al sontuoso "Del Posto", uno della dozzina e più dell'impero gastronomico creato dalla instancabile profuga dalmata Lidia Bastianich ormai esteso anche a Singapore, il portiere sfodera addirittura pirolozzetti, coni arancione, per fare posto alla pallina di gelato, sotto lo sguardo irritato degli indiani, nel senso dei figli del subcontinente asiatico, che ormai sembrano avere monopolizzato il business delle limousine a New York. "What the fuck is it...?" osa un autista, scurrile, ma checcazzè 'sta cosa, subito punito dai protettori di Pollicino con doppio giro dell'isolato prima di poter scaricare i clienti. Si capisce che la veda come una nemica, una concorrente mortale, la mia pallina, nel rischio che la 500, senza speranza sulle grande distanze del Midwest e della Prateria, gli tolga clienti nel caos megalopolitano di Los Angeles, Chicago, New York, Miami. Esce anche l'imperatrice della ristorazione, Lidia, che la tocca e si fa fotografare accanto. La parcheggio sfacciatamente davanti al ristorante, contro ogni regolamento e codice, minuscola Gulliver stanca, ma vittoriosa dopo un sabato di guerra a Manhattan difesa da un'armata di lillipuziani arancione. La lascio aperta, i finestrini abbassati, tenera e vulnerabile. "Ma non hai paura che la rubino?", mi fa Gabriele, il fotografo. "No, Gabriele, semmai ho paura che me la mangino".
(Fonte: www.repubblica.it - 12/10/2010)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento