giovedì 12 agosto 2010
Marchionne a tappe forzate
Soltanto qualche anno fa nessuno avrebbe scommesso sulla capacità delle grandi case automobilistiche di Detroit di fare profitti in un mercato delle dimensioni attuali. Il collasso delle Big Three era avvenuto al momento in cui, nell'autunno del 2008, cadde la domanda di automobili in U.S.A. con una rapidità tale da mettere alle corde General Motors, Ford e Chrysler, dopo un periodo di prolungato declino delle loro performance. Gli ultimi dati mostrano ora i segni indiscutibili di un'inversione di tendenza: la Ford, che era stata giudicata nelle condizioni di un malato terminale, è ritornata all'utile con risultati significativi che hanno fatto apprezzare la svolta apportata da Alan Mulally al più antico dei grandi produttori americani, l'unico a non dover ricorrere a capitali del Tesoro. Intanto prosegue la marcia a ritmi forzati per il recupero di General Motors e Chrysler. Sergio Marchionne, pur senza nascondere le difficoltà e gli ostacoli che ancora lastricano il cammino verso il risanamento, ha già indicato i tempi per riportare in attivo il bilancio della casa di Auburn Hills. Segno, appunto, che ciò che sembrava impossibile, quando il mercato americano assorbiva tra i 16 e i 17 milioni di autovetture all'anno, può diventare realtà quando esso si ferma a 11 milioni di vetture, come avverrà nel 2010. Per tutti i produttori s'impone oggi l'adozione di politiche in grado di generare profitti pur in presenza di una domanda assai lontana dai picchi raggiunti quando l'economia americana ancora tirava. Non solo: le case automobilistiche si stanno attrezzando per reggere di fronte a un mercato alquanto più ristretto e povero rispetto al passato. Vero è che il consumo elevato dei primi anni del 2000 non aveva fatto bene a Detroit, che aveva creduto di poter rimandare i conti con la crisi del proprio modello industriale grazie alla tenuta del mercato interno. La fortuna in patria di Suv e pick-up aveva permesso così di eludere quell'analisi impietosa dei metodi di gestione che la crisi doveva poi imporre con brutalità. Proprio sulla capacità di garantire la redditività d'impresa con volumi produttivi assai contenuti è basato il successo manageriale di Marchionne. In un certo senso, affrontando la crisi Fiat prima che emergessero in pieno le difficoltà strutturali del sistema dell'auto, Marchionne ha messo a punto criteri di gestione via via seguiti anche dalle altre case. Pur indicando il traguardo di un raddoppio della produzione di Fiat e Chrysler, il manager italo-canadese bada soprattutto, nell'immediato, a recuperare margini attraverso un feroce contenimento dei costi. Ed è chiaro che, nella sua prospettiva operativa, è già presente la dimensione di un mercato volto a consumi meno vivaci del recente passato. In questa logica rientra naturalmente anche la spinta ad assicurarsi il più pieno utilizzo possibile degli impianti, specie là dove si concentreranno le produzioni considerate più strategiche. Di qui le ricadute sul sistema di relazioni industriali che hanno tenuto banco nella discussione pubblica degli ultimi mesi in Italia. La riorganizzazione di Chrysler e Fiat a cui sta attendendo Marchionne prevede una sequenza rigidissima di tempi, soprattutto per quanto concerne lo scenario americano. Si tratta di assicurare, entro pochi mesi, le condizioni che possono riportare la Chrysler sul listino di Wall Street, aumentando nel medesimo tempo la quota delle azioni detenuta dalla Fiat. L'agenda è molto stretta e, come si è visto nei giorni scorsi, le attese sono semmai che Marchionne riesca ad accelerare ulteriormente i passaggi del risanamento della Chrysler. Questa concatenazione ha evidentemente un riflesso anche sul nostro paese, che risente ormai della continua comparazione con l'ambiente industriale nordamericano. Nelle fabbriche Chrysler, il sindacato U.S.A. dell'automobile non trova scandaloso che possano lavorare fianco a fianco operai i quali, pur compiendo le stesse operazioni, sono remunerati con livelli salariali estremamente differenti. Non così da noi, ove differenziali retributivi così ampi non sono ammessi, né esiste una tale varietà di condizioni contrattuali all'interno di un medesimo stabilimento. Più in generale, il processo di avvicinamento tra Chrysler e Fiat sta facendo risaltare la distanza fra i sistemi di regolazione della prestazione del lavoro che contraddistinguono le due realtà. Ciò non rappresenta nulla di nuovo, per certi versi, perché la situazione sindacale che vige nelle fabbriche di Stoccarda non è certo analoga a quella dei trasnplant americani di Bmw e Volkswagen, dove ben inferiori risultano i diritti dei lavoratori. Ma nel caso Fiat-Chrysler si è davanti a una fusione che dovrà sfociare nella creazione di un nuovo soggetto d'impresa, non a un'acquisizione né alla creazione di unità produttive all'estero: ecco perché Marchionne, nei suoi interventi, torna continuamente sulla comparazione fra U.S.A. e Italia. Ed è un confronto che va a vantaggio dell'America.
(Fonte: www.ilsole24ore.com - 12/8/2010)
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