giovedì 14 gennaio 2010

Financial Times: Il lungo viaggio del nuovo principe di Detroit


A Sergio Marchionne piace trovarsi al centro dell'attenzione generale, e questa settimana a Detroit ha avuto modo di esaudire spesso il suo desiderio. La prima volta che ho avuto modo di accostarmi all'amministratore delegato di Chrysler e Fiat al Salone dell'Automobile di Detroit, l'ho visto letteralmente assediato dai fotografi, mentre mostrava da vicino la Fiat 500 a Nancy Pelosi, portavoce della Camera dei Rappresentanti. Nancy Pelosi ha buoni motivi per prestare grande attenzione a quell'auto, tenuto conto che il governo degli Stati Uniti ha una posta in gioco di 12 miliardi di dollari (8,3 miliardi di euro) nella capacità di Marchionne di far risorgere un'azienda che la task force automobilistica di Barack Obama aveva deciso che non era in grado di cavarsela con le proprie forze. Senza di lui, il governo avrebbe potuto non pagare affinché una delle più piccole delle Tre Grandi case automobilistiche riuscisse a ottenere l'applicazione del cosiddetto Chapter 11 (legge U.S.A. sulla bancarotta, NdT). Resta tutto da vedere, in ogni caso, se egli riuscirà a bissare il trucco riuscito in Fiat, dove ha riportato un'azienda in crisi alla stabilità, se non addirittura a competere nuovamente con la concorrenza globale. «Sono in gioco la nostra reputazione e la nostra credibilità. Abbiamo messo in gioco ogni cosa, compresa la mia vita» mi ha riferito. Marchionne, che ama indossare pullover, non è portato a provare insicurezza o sfiducia nelle proprie capacità. Al contrario: in un suo recente discorso ha citato la frase di Machiavelli secondo il quale "nella cosa pubblica il ritorno ai valori fondanti della democrazia è spesso merito delle capacità di un sol uomo". E Marchionne guarda a sé proprio come a quell'uomo. Le sue chance di successo, in ogni caso, dipendono da come si vuole definire l'obiettivo: se consiste nel rendere solida Chrysler, rinnovarne la gamma dei prodotti, rimborsare il prestito governativo in aiuti da 7 miliardi di dollari e riportarla a galla, quotandola con un'offerta pubblica entro il 2011, per esempio, (e nessuno di questi è un risultato da poco) ritengo che probabilmente ce la farà. Se invece, il successo è quello che egli stesso intende, quando parla di portare Chrysler-Fiat nella premier league dei costruttori di automobili, accanto a Ford, Toyota e Volkswagen, ne dubito: il suo impero è un guazzabuglio sovrabbondante di marchi nazionali, troppi per poter partire alla conquista del mondo. Marchionne ha cambiato gli stati d'animo alla Chrysler, la casa automobilistica statunitense che vende sempre meno automobili dalla fine degli anni Novanta, messa in crisi in un primo tempo dalla disastrosa acquisizione da parte di Daimler e poi dal periodo in cui è stata proprietà di Cerberus Capital, una società di private equity, periodo che Marchionne non esita a definire la "Twiligth Zone", l'era del crepuscolo. L'insieme dei brand del suo portfolio non è granché: il marchio Chrysler e anche quello Dodge producono essenzialmente van e furgoncini che non vanno così bene negli Stati Uniti. Le automobili poi soffrono per il loro design, affatto speciale, per problemi di qualità e nessuna di esse è raccomandata da Consumer Reports, benché Jeep sia un marchio che regge ancora bene. Nel frattempo Ford inizia a dare qualche lento segnale di ripresa, avendo basato la sua nuova auto Focus sul design e sulle tecnologie provenienti dalla sua divisione europea, e sta vendendo il suo modello in tutto il mondo. Perfino General-Motors, così soggetta a incidenti, sta riscuotendo un successo migliore a livello internazionale e sta per sfornare una nuova gamma di prodotti, tra i quali i modelli Aveo e Cruz. La task force addetta al settore automobilistico dell'Amministrazione Obama era stata alquanto esitante se cercare di salvare Chrysler togliendola dai guai, cosa che sarebbe stata temeraria per un'industria affetta da una consistente sovrapproduzione, ma aveva perso il proprio sangue freddo. All'interno di Chrysler l'umore era ai minimi, come ci si può aspettare in una casa automobilistica che produce auto dagli interni a buon mercato, come la Sebring. Ralph Gilles, alla testa di Dodge, dice: «I nostri ingegneri arrivarono a mordersi talmente tanto la lingua, assicurando di poter migliorare quell'auto, da farla sanguinare». La ventina di dirigenti che formano il team di Marchionne alla Chrysler appare adesso pieno di nuove energie, anche se forse un po' intimorito (quanti non si rivelano subito all'altezza della situazione sono licenziati in tronco). Pendono dalle sue labbra e da ogni sua parola, per altro difficile da comprendere poiché egli parla borbottando, e lavorano sodo al suo piano quinquennale. Sfruttando i vantaggi offerti dalla debole posizione contrattuale del governo americano e dallo status concesso dal Chapter 11, pare che Marchionne abbia fatto proprio un buon affare per riprendere gratuitamente il controllo su un asset fortemente colpito. In cambio della tecnologia e del tempo che egli ha dedicato, molto probabilmente entro il 2011 Fiat potrebbe finire col possedere il 35 per cento di Chrysler. Marchionne potrebbe mettere insieme Lancia e Chrysler, usando la seconda come brand principale del gruppo abbinata alla tecnologia della prima, come pure far fruttare le potenzialità di Jeep ed escogitare qualcosa di buono per il marchio Dodge. Con la ripresa che è in corso nelle vendite delle automobili negli Stati Uniti, a Marchionne basterebbe conquistare una fettina soltanto, appena pochi punti percentuali del mercato dell'auto, e un accenno di offerta pubblica d'acquisto. Una ripresa sul breve periodo, in ogni caso, non equivale a una prosperità sul lungo periodo e le prospettive di Fiat-Chrysler di riuscire a raggiungere la seconda sono alquanto fosche. Marchionne sarà anche un giocatore molto esperto, ma le carte che si ritrova in mano non sono granché. È stato istruttivo osservare con attenzione gli stand della Chrysler e di Fiat al salone dell'auto di Detroit, che presentavano caratteristiche alquanto particolari di cui tener conto: rispetto all'attenzione riposta da altre case automobilistiche su un numero inferiore di modelli e di brand, sono parsi un insieme di piccoli marchi - Chrysler, Dodge, Fiat, Lancia, Alfa Romeo, Maserati e Ferrari. Dodge è un marchio da operai che sa di vecchio e ha un unico modello che va forte – il Ram – che si è evoluto in un marchio a sé stante. Marchionne ammette che Dodge oggi ha valore soltanto negli Stati Uniti, e la ragione per la quale non le ha fatto chiudere i battenti si spiega con una parola sola: "dimensioni". In pratica è troppo grande per essere lasciata fallire. Chrysler, invece, ha qualche chance migliore di riuscire a ottenere risultati apprezzabili nel suo mercato interno. Espandersi in Asia, o fare di Lancia e Fiat i brand europei più importanti in grado di competere con Volkswagen, Renault o Opel sarà estremamente difficile. Marchionne sostiene di poter schierare i suoi brand nel mondo condividendo piattaforme comuni, piuttosto che puntare su un unico marchio come Ford o Toyota. «La proliferazione dei brand non è certo una novità, ed è proficua se ben fatta» dice. Sarà anche vero, ma Machiavelli non avrebbe consigliato al suo principe di farci poi tanto affidamento. Se e quando Marchionne metterà in sesto Chrysler e ripagherà gli U.S.A., allora potrà ripensarci.
(Fonte: www.ft.com - 13/1/2010)

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