Sergio Marchionne lancia il plant sharing, l'affitto delle fabbriche europee del gruppo per far fronte all'eccesso di capacità produttiva installata. Gli stabilimenti Fiat in Europa, dice il manager di Torino, "sono a disposizione di chi voglia utilizzarli per produrre". Di fronte al calo della domanda nel Vecchio continente e al rischio che "la disintegrazione dell'euro possa far crollare il mercato europeo sotto i 10 milioni di auto vendute" (oggi sono circa 13 milioni), l'ad di Fiat-Chrysler avanza dunque una proposta clamorosa: utilizzare, affittandola, la capacità installata per produrre auto anche di altre marche. La prima ipotesi è quella della Mazda, che ha recentemente annunciato un accordo di produzione industriale con il Lingotto: "Ho detto chiunque - risponde Marchionne - anche altri stranieri, non solo Mazda". La soluzione del plant sharing, della Fiat in affitto, è la strada alternativa a quella che il manager della casa torinese ha provato a battere in questi mesi: il progetto di un piano europeo di incentivi per ridurre la capacità produttiva a livello continentale, "come era accaduto anni fa per la siderurgia". Il riferimento è al gigantesco piano di riduzione produttiva che venne avviato negli anni Ottanta dalla CECA, la Comunità Europea del Carbone e dell'Acciaio. L'Europa pagò in quella occasione il prepensionamento di decine di migliaia di dipendenti del settore con un sistema di incentivi alle aziende proporzionale alle tonnellate di acciaio che si impegnavano a non produrre. Si potrebbe applicare oggi quello schema all'auto con un vasto piano di prepensionamenti pagati da Bruxelles? A differenza di quanto accadde per l'acciaio, questa volta i tedeschi ritengono di essere toccati solo marginalmente dalla crisi del settore delle quattro ruote e dunque si oppongono al piano di incentivi. Ecco allora l'idea del plant sharing, già praticato dalla Fiat in Polonia, nello stabilimento che produce contemporaneamente la 500 e la Ford Ka. Marchionne spiega ora che questo potrebbe accadere anche negli stabilimenti italiani. Sarebbe possibile, in sostanza, che a Mirafiori una o più linee venissero affittate alla Mazda, o a qualche altro costruttore, e che altrettanto accadesse a Cassino o Pomigliano. O addirittura, ipotesi più ardita, che venisse affittato uno stabilimento come quello di Termini Imerese, una volta fallito il tentativo di Di Risio. Prepensionamenti, fabbriche in affitto, incentivi europei: tutte strade per evitare o attutire il disastro sociale che potrebbe verificarsi con la drastica decisione di chiudere stabilimenti. In fondo la stessa scelta di Marchionne di provare a produrre a Mirafiori i SUV da vendere negli U.S.A. è una operazione che serve a saturare l'eccesso di capacità produttiva italiana. Secondo i calcoli dell'ACEA, l'associazione dei costruttori europei, la sovracapacità del Vecchio Continente è del 20 per cento. Tradotta in Italia, quella percentuale equivale almeno a un grande stabilimento. Il piano Fabbrica Italia prevedeva infatti per il 2014 il pieno utilizzo degli impianti italiani e la conseguente produzione di 1,4 milioni di auto. Il 20 per cento di quella cifra sono poco meno di 300 mila pezzi, quanti ne produce oggi uno stabilimento come Melfi e quanti ne dovrebbe produrre Pomigliano. Se questi piani di riduzione non avessero successo, o se l'euro non reggesse alla tempesta di questi mesi? "Beh, allora - risponde Marchionne - non sarebbe il problema di uno o due stabilimenti da saturare: la situazione diventerebbe molto più grave".
(Fonte: http://torino.repubblica.it - 10/6/2012)
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