giovedì 29 luglio 2010
I rischi del Lingotto
Da qualche tempo le mosse di Fiat Auto stanno diventando frenetiche. A fine aprile è arrivato il piano per trasferire a Pomigliano una quota della produzione della Panda che ora si fa in Polonia. Una settimana fa, l'annuncio che un modello di notevole peso industriale e commerciale sarebbe stato costruito in Serbia e non a Mirafiori. Poco dopo si è saputo che è già stata costituita una nuova società per gestire lo stabilimento campano, nonché per assumere con un nuovo contratto i lavoratori che accetteranno in toto di lavorare secondo i drastici standard indicati nel piano di aprile. Infine ieri l'Ad di Fiat ha avanzato come affatto realistica l'ipotesi di uscire dal contratto nazionale dei metalmeccanici ed ha ribadito che ciò che vuole sono comportamenti dei lavoratori che non mettano mai, in nessun modo, a rischio la produzione e l'azienda. In altre parole, niente scioperi, niente vertenze sindacali, assenteismo meglio se vicino a zero, massima disciplina in fabbrica. A queste condizioni Fiat auto potrebbe anche restare in Italia. La sequenza di queste mosse rientra chiaramente in una precisa strategia: portare per quanto possibile nel nostro Paese le condizioni di lavoro dei paesi emergenti, e in prospettiva i salari che in quelli prevalgano, perché ciò appare indispensabile allo scopo di reggere alla competizione internazionale. Se questa come sembra è la strategia Fiat, bisogna chiedersi dove essa potrebbe portare il Paese, ma anche la Fiat, e se la strategia stessa non avesse o non abbia ancora delle alternative. Nel nostro Paese la strategia Fiat potrebbe in realtà non diminuire, grazie agli investimenti promessi, bensì aumentare il rischio di un marcato inasprimento e diffusione del conflitto sociale. Non può esservi dubbio, quali che siano le previsioni in contrario di questo o quel ministro o sindacalista, che migliaia di aziende le quali hanno sussidiarie all'estero chiederanno quasi subito, ove la strategia del Lingotto si affermasse, di adottarle a loro volta. E' vero che c'è la crisi, che ha indebolito allo stesso tempo i sindacati e i singoli lavoratori; per cui molti di questi, dinanzi allo spettro della disoccupazione, accettano qualsiasi condizione pur di mantenere od ottenere un lavoro. Tuttavia non è affatto detto che in tutte le categorie, in tutte le zone industriali, in tutte le fabbriche e in tutti gli uffici, la grande maggioranza dei lavoratori accetti senza fiatare i dettami dell'organizzazione del lavoro "di classe mondiale". Ivi compreso il divieto di far sciopero, di manifestare, di aprire vertenze e perché no di ammalarsi. È questo uno scenario che l'amministratore delegato Sergio Marchionne parrebbe aver notevolmente sottovalutato, nella sua foga di giocatore che punta soprattutto a vincere la partita, quali che siano le conseguenze per gli spettatori. Dovrebbe essere il governo a ricordarglielo con una certa fermezza; ma dove stiano il governo, i ministri competenti, i politici che non si limitino a dire di supporre che tutto finirà bene, nessuno lo sa. Avrebbe potuto adottare altre strategie la Fiat, dinanzi a quella che senza perifrasi va definita come la crisi mondiale dell'autoindustria? La risposta è sì, alla quale è doveroso aggiungere che forse è troppo tardi. In primo luogo, anziché battersi per portare da noi le aspre condizioni di lavoro, i bassi salari, l'assenza di diritti dei paesi emergenti, Fiat avrebbe potuto battersi per addivenire ad accordi internazionali intesi a portare gradualmente in questi ultimi condizioni di lavoro, salari e diritti vigenti nei nostri paesi. Non è roba da fantapolitica. In molti settori, dall'abbigliamento all'industria mineraria, accordi del genere sono stati sottoscritti e miglioramenti non trascurabili conseguiti per i lavoratori di entrambe le sponde. Naturalmente, in una simile operazione strategica Fiat avrebbe dovuto di nuovo avere dietro o accanto un governo capace di muoversi su questa complessa scacchiera. Anche in tema di strategie industriali la Fiat avrebbe potuto imboccare strade diverse. L'autoindustria mondiale soffre di tre gravi problemi: un eccesso enorme di capacità produttiva, un serio ritardo tecnologico e una sostanziale incapacità di affrontare lo snodo cruciale della mobilità sostenibile (ad onta di quel che dice il sito dell'ACEA, l'associazione europea costruttori d'auto). In una simile situazione l'autoindustria avrebbe dovuto scegliere la strada schumpeteriana della concorrenza cooperativa, in luogo della concorrenza distruttiva. La prima prevede lo sviluppo di oligopoli che sappiano mettere in comune piani di produzione e tecnologie, oltre a dividersi saggiamente aree di mercato. La seconda prevede la guerra di tutti contro tutti, nella quale "mors tua vita mea". Anche in questo caso la Fiat non poteva sviluppare da sola forme di cooperazione internazionale, ma con il suo peso industriale e il suo prestigio poteva almeno provarci. Per contro ha imboccato con eccezionale tenacia e durezza la strada della guerra a oltranza dei costruttori. Essere costretti a sperare, come capita ora con le sue ultime mosse, che Fiat nei prossimi anni vinca almeno qualche battaglia, se non la guerra, non aiuta a formarci una visione serena né di quel che resta o potrebbe restare dell'industria italiana, né delle virtù competitive di cui parrebbe doversi universalmente dotare la società in cui viviamo. Quella che si diceva fosse fondata sul lavoro.
(Fonte: www.repubblica.it - 29/7/2010)
Iscriviti a:
Commenti sul post (Atom)
Nessun commento:
Posta un commento