lunedì 25 aprile 2011
L'italianità, da Parmalat a Fiat
La scalata a Parmalat era ampiamente annunciata: si vedano ad esempio i vari articoli di Alessandro Penati su La Repubblica negli ultimo due anni. Ciò nonostante, l'intervento "a difesa" dell'azienda è avvenuto a tempo scaduto, quando Lactalis aveva già acquisito una quota di controllo. L'unico modo per contrastare l'ascesa dei francesi a quel punto era di cambiare le regole del gioco, come puntualmente fatto. Il danno in termini di attrattività del capitale estero, già scarsa, è enorme. Se si aveva a cuore l'italianità di Parmalat, era necessario aspettare l'attacco francese per dare un assetto più solido al suo capitale? È fin troppo facile prevedere che la situazione si ripeterà tra circa un anno, quando la Fiat annuncerà il piano di fusione con Chrysler. Le tappe del processo sono già ben delineate. Fiat intende acquisire entro fine anno il controllo della casa americana per poi procedere alla fusione fra le due società. Seguirà a stretto giro la decisione sulla sede legale della nuova multinazionale e sul mercato azionario su cui quotarsi. Sergio Marchionne ha spiegato cosa determinerà la scelta: le condizioni di contesto (l'efficienza del "sistema paese") e la finanza. Partiamo svantaggiati su entrambi i fronti. Come sostenuto in molte occasioni su queste pagine, il problema dell'Italia è di aver perso progressivamente terreno nel fornire un ambiente favorevole all'iniziativa economica. Se il sistema-paese funzionasse, la proprietà sarebbe una questione di importanza secondaria: le imprese produrrebbero in Italia perché conviene farlo. Purtroppo, la competitività del nostro paese è in caduta libera da circa un quindicennio, come attestato da varie classifiche internazionali. Il governo latita e, quando si muove, fa rimpiangere l'immobilismo. Aspettarsi cambiamenti significativi da questo fronte nell'arco di tempo in cui la fusione si concretizzerà è del tutto illusorio. Rimane la finanza. Nella struttura proprietaria del nuovo gruppo giocheranno un ruolo fondamentale le decisioni della famiglia Agnelli, che appare divisa grosso modo in due partiti. Da una parte, la vecchia guardia, che lega non solo la ricchezza ma anche il prestigio e il potere al controllo della Fiat. Dall'altra, le nuove generazioni, cresciute nell'epoca delle “dotcom” e formate in master di finanza in cui si insegna che investire gran parte della propria ricchezza in un solo titolo è inutilmente rischioso. John Elkann ha ribadito più volte la disponibilità a diluire il controllo in vista di aggregazioni. In questo caso, quote consistenti delle azioni Fiat potrebbero finire sul mercato. La soluzione che mi sembra più probabile è un compromesso: tentare di mantenere una quota di controllo senza aggiungere soldi. In questo caso, si creerà una multinazionale finanziariamente fragile, con i difetti tipici delle imprese familiari, ma ingigantiti su scala globale. Sarà difficile reperire i capitali di rischio necessari al progetto di creazione di una impresa automobilistica che venda più di 6 milioni di veicoli all'anno. Il mantenimento del controllo senza aggiungere soldi non sembra una soluzione sostenibile per molto tempo. Entrambi gli scenari indicano che la fusione andrà di pari passo con cambiamenti radicali della struttura proprietaria della futura Fiat-Chrysler. Gli investitori internazionali si stanno già posizionando. Personalmente, sono tutt'altro che convinto che mantenere una quota rilevante di azioni Fiat in mani italiane sia un aspetto cruciale per il futuro dell’azienda in Italia. Sarebbe molto più utile lavorare sulle condizioni generali di competitività. Ma data l'incapacità dimostrata dall’esecutivo su questo fronte, e dato che la difesa dell'italianità è uno dei cardini dell'azione di governo, sembra inevitabile che gli sforzi si concentreranno sugli aspetti proprietari. L'approccio del governo al caso Alitalia e Parmalat ricorda le notti di Arcore: un'ammucchiata confusa e improvvisata di provvedimenti legislativi ad hoc, banche di sistema, cordate di imprenditori. Ultima comparsata, un fondo pubblico con cui investire direttamente nel capitale delle imprese. C'è da rabbrividire al solo pensiero di applicare questo strumentario alla futura Fiat-Chrysler in caso di sviluppi sgraditi sul fronte proprietario. Se ci sono operatori finanziari italiani interessati al progetto Fiat-Chrysler e che ritengono importante mantenere una significativa quota tricolore nella futura multinazionale, si facciano avanti subito. Non c'è motivo per aspettare l'annuncio dello spostamento della sede legale negli Stati Uniti o il passaggio di una quota rilevante a un investitore istituzionale americano. A quel punto, intervenire diventerà più difficile e molto più costoso. Si lavori ora su un progetto condiviso, discutendo direttamente con l'azionista di controllo e con il management e si mettano sul tavolo i soldi per accrescere la dotazione di capitale di rischio della Fiat. In caso contrario, lasciamo che il progetto segua il suo corso e risparmiamoci altre sceneggiate fuori tempo massimo a difesa dell'italianità.
(Fonte: www.lavoce.info - 5/4/2011)
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Questo articolo datato 5 aprile di Fabiano Schivardi pone in discussione il senso dell’italianità sotto diversi punti di vista: italianità sostenuta da capitale italiano o capitale estero, italianità che investe nell’economia globale, italianità privata e/o pubblica, italianità come proprietà di controllo. In questo caleidoscopio il progetto Fiat Chrysler si può rileggere come italianità (privata) che investe negli USA e che si prepara ad accettare nuovi soci investitori non necessariamente italiani, proprietà italiana che si apre alla public company e si prepara a ridurre la sua influenza nella gestione aziendale, italianità pubblica tentata ad investire per garantire l’italianità. Se investire nell’italianità vuol dire credere nel valore economico dell’italianità questo non significa che il capitale debba essere solo italiano, come dimostra la scelta dell’amministrazione Obama di investire nel progetto Fiat Chrysler, oppure l’investimento VW in Italdesign. Italianità è un concetto che tende a sfumarsi nell’economia globale: l’italianità di Fiat coincide con le sue radici , la sua sede storica, il capitale proprietario italiano, le sue eccellenze tecniche e manageriali sviluppatesi prevalentemente sul territorio italiano. L’italianità di Fiat però è giunta al capolinea perché le opportunità di sviluppo (sistema paese, capitale italiano) in Italia sono da tempo sfumate e l’unica porta aperta trovata da Marchionne è quella di innestare le eccellenze Fiat con le eccellenze Chrysler. Forse non abbiamo pienamente accettato che nell’economia globale italianità vuol dire solo eccellenza (knowledge) sul territorio e solo sviluppando questa eccellenza difendiamo l’italianità.
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